Ricordo di Aristo – Una fedeltà sorridente agli ideali di giustizia
Aristo Ciruzzi ci ha lasciato in un giorno infinitamente triste di questa estate 2006, nella sua Firenze. Aveva ottant’anni, trascorsi in gran parte a Genova. Fino all’ultimo ha esercitato la professione d’architetto fra l’Italia e Cuba, con una quantità impressionante di realizzazioni (fra cui non figura, come è stato erroneamente scritto, il “matitone”) che riflettono la fibra costruttiva del suo impegno.
La sua vita è stata precocemente segnata dalla lotta antifascista alla quale ha preso parte attivamente e dalla militanza di comunista aperto alla sperimentazione e al confronto con l’inedito (maoismo, castrismo, gruppi extraparlamentari). Negli anni 70 le farneticazioni teleguidate del confidente delle questure Marco Pisetta lo condussero, per un infimo lasso di tempo, insieme alla sua altrettanto indimenticabile compagna Marisa Calimodio, nelle patrie galere, da cui uscirono entrambi pienamente prosciolti in istruttoria. Anziché condurlo alla disillusione, l’esperienza lo rinforzò. Né le menzogne né le minacce avevano minimamente intaccato una fedeltà sorridente alla vita che si traduceva spontaneamente in fermo rifiuto di neghittosità e acquiescenze diffuse.
Il commiato definitivo di Aristo Ciruzzi è stato probabilmente accelerato da una bestiale aggressione subita negli ultimi tempi. Dopo averlo violentemente percosso, due sconosciuti l’avevano trascinato fin dentro casa sua per estorcergli del denaro. In seguito, per quanto seriamente ferito, aveva esitato a lungo prima di sporgere denuncia. Quest’esitazione è il segno estremo e inequivocabile di come Aristo Ciruzzi intendesse la logica dei rapporti sociali, al di là di ogni contabilità dei meriti e delle colpe, rivolto verso una concezione superiore della giustizia. Bisogna aver frequentato quella casa di Palazzo Doria, che del vecchio ammiraglio aveva conservato solo l’inconfondibile aspetto di porto di mare, per capire come per lui “comunismo” fosse una splendida utopia concreta. Raramente la radicalità solare di un disegno politico sembrava più prossima a realizzarsi in un progetto di vita comune. Ascoltando il suo eloquio ironico e scintillante, il fluire dolcissimo de l suo timbro toscano, si capiva inoltre all’improvviso perché Dante avesse definito l’italiano “la lingua del sì”. Aristo ci ha insegnato a batterci senza settarismi, ma mantenendo alta l’esigenza di discontinuità e di creazione nei modi di esistere e di fare. Il suo rigore intellettuale poco comune era sostenuto da un’etica maiuscola, grande e ospitale.
Quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo sono oggi consapevoli del vuoto scavato dalla sua scomparsa. Addio, caro amico e compagno, non ti dimenticheremo.
(Carlo Arcuri)