Diverso parere – Dal laboratorio Sofri un vaccino antipace

Nel commentare a caldo, su Repubblica di lunedì 17 luglio (“Cari pacifisti sulla guerra vi sbagliate”), le esternazioni di Gino Strada sul regime afghano di Ahmed Hamid, tacciato di degno clone degli irriducibili e serialmente proliferanti taliban, Adriano Sofri, fingendo di concedere all’avversario la scelta delle armi, adotta un’inusitata postura professionale. Presi in prestito dallo Strada i panni e financo il camice del “buon chirurgo”, il nostro avanza impavido, bisturi in pugno. Ne consegue un accavallarsi di metafore l’una più gustosa e… sintomatica dell’altra.


Diciamocelo francamente: l’opinione diffusa secondo cui la salute dello psicosoma (inserito in apposito ecosistema) basterebbe a soddisfare la pressante domanda di benessere individuale e collettivo, ci ha da tempo assuefatti al processo di medicalizzazione a tappeto in atto. È forse un caso se, dalla prima guerra del Golfo in poi, non c’è campagna d’ingerenza preventiva che non ammannisca provvide “dosi” di “bombardamenti chirurgici” terapeuticamente mirati a “bonificare” il cosiddetto “male”? Avendo a sua volta preso gusto al gioco, Sofri promuove l’asetticità del rapporto medico-paziente a modello di strategia internazionale. Non pago d’osservare che taluni soffrono di malattie e ferite che esigono “medici e infermieri capaci e appassionati”, egli diagnostica acutamente che le persone soffrono altresì “dell’oppressione, della prepotenza”, nonché, si badi, “delle frustate per chi ride a gola piena”. In virtù di “un universale giuramento d’Ippocrate”, i “simili privileg iati” di tali vittime si ritrovano così arruolati e spinti dal nostro in prima fila, quali “medici senza frontiere” atti a trattare professionalmente il sopruso. Consapevole della fragilità della traslazione, il Sofri passa da questa neanche tanto tacita legittimazione della guerra “terapeutica” o “preventiva”, al versante altrettanto scivoloso del diritto internazionale, reclamando contro “il feticcio” dello stato-nazione ravvivato “dal pacifismo assolutista” (sic), nientemeno che “una legge, un tribunale e una polizia” risolutamente multinazionali.
Dalla medicina applicata al cosmopolitismo giuridico il passo, per quanto breve, risulta nondimeno, ancora una volta, ad alto rischio. La retorica sbandierata dei Diritti dell’uomo che fa del nemico un “imputato” da confinare in apposite zone di transito scevre, non si dice della proverbiale presunzione d’innocenza, ma di qualsivoglia legislazione, si scopre così parente prossima della biopolitica trionfante, avvezza a sublimare i conflitti in “trattamenti” allopatici od omeopatici, secondo i gusti. Tale immunizzazione massiccia dell’informazione, a ben guardare, non fa che rinverdire una pratica invalsa. In un passato remoto ma non troppo, punire esemplamente il colpevole, o più benevolmente allontanarlo, non equivaleva forse a “disinfettare” la città esorcizzando epidemie presunte o reali mediante un socializzatissimo salasso, eventualmente accessoriato d’apposita fumigazione sacrificale?
Restaurare il carattere di grandiosa, triviale oscenità delle guerre in corso (anche e soprattutto di quelle che pretendono alla legittimità più prettamente “difensiva”) significa, se non altro, rifiutare che l’annientamento dei corpi possa spacciarsi abusivamente per condizione indispensabile al perpetuarsi della vita. Elargire al conflitto armato un improbabile certificato (medico) di buona condotta risulta invece letale non tanto per le illusioni dell’angelismo pacifista paventato dall’amnesico censore, quanto per la leggibilità stessa in tempo reale, com’è ormai d’uso, degli eventi.
(Achab)