Cultura – Il pranzo della marmotta e il museo degli operai
E’ per pura coincidenza che il progetto del “Museo degli operai” presentato martedì 4 luglio nella trattoria dei Tegli, oltre i Giovi, presenti una quarantina di persone, abbia coinciso con l’amarcord di Cornigliano (Repubblica, 5 luglio 2006, “Cipputi torna a casa. La fabbrica diventa teatro. Centra il bersaglio lo spettacolo di Altan e Gallione con la Compagnia dell’Archivolto”). Il nostro, dice uno degli organizzatori del “Museo”, è il risultato di un gioco. E’ cominciato il giorno della “marmotta”.
Uno scherzo: era il 23 gennaio del 2004, un venerdì e noi – tutti operai pensionati o quasi – ci vediamo a mangiare lo stocco o il fritto a seconda della stagione. Una abitudine che in passato tra gli operai c’era. Insomma, si parlava e verso la fine del pranzo è venuto questo gioco, che poi è andato avanti come una sfida tra quelli che erano lì – una cosa come “vecchi” contro “giovani”- sul significato di parole che si usavano in fabbrica. Perché ce n’ erano di quelle – come “marmotta” o come “biscia”sconosciute agli uni o agli altri: la prova di come cambiano il lavoro e la fabbrica anche in pochi anni. Di come ognuno di noi avevamo vissuto lo stesso luogo in un modo diverso. Allora ci siamo detti: per raccontare la “condizione operaia” non serve un capannone, con dentro le macchine e questo e quello. Ci vuole invece qualcosa che faccia capire la vita di quel posto. E così senza tanti rigiri abbiamo pensato che quel gioco delle parole che stavamo facendo poteva tornare utile. Le parole corrispondono a degli oggetti, a situazioni, a storie: dicono di più di un tornio appoggiato lì con la sua brava descrizione. E’ una idea che è venuta un po’ a tutti, lì per lì; magari perché allora si parlava anche tra noi dell’anno della cultura e si diceva “dopo tutto si dovrebbe parlare anche un po’ di operai”. Le idee quando sono buone corrono da sole: succedeva già prima di Internet e anche prima del telefono. Anche in stabilimento: il volantino buono girava, veniva custodito con cura; quello bla bla non arrivava neanche in reparto; subito nel bidone. Così siamo andati avanti: prima a casaccio e poi ci siamo organizzati; per due anni , una volta al mese, fino a venerdì 30 giugno 2006, quando c’è stata la riunione fondativa; in una trattoria – si capisce – a Pedemonte, sulla Secca. Noi parliamo meglio a tavola.
“Ci abbiamo lavorato in diversi. C’è il gruppo che ha raccolto le idee, le parole: cinque operai, due impiegati e un maestro di scuola, tutti che ci conosciamo da una vita. Poi c’è una ventina di altri che sono quelli che vengono stabilmente ai pranzi e hanno seguito il lavoro dall’inizio. Infine ci sono gli occasionali, che sanno tutto su quello che facciamo, che ne hanno parlato in giro e collaborano magari portando esperienze esterne. Quando tutti hanno capito cosa stavamo facendo: è arrivata tanta di quella roba, parole, volantini, ricordi, gente che voleva raccontare una storia; una cosa superiore alle nostre forze. Perché finché si tratta di parole ce la potevamo cavare, sia pure con qualche aiuto. Ma quando ti arriva una borsa con dentro tutti i volantini che uno ha conservato – quelli che ha giudicato importanti – in 35 anni di lavoro, cosa fai? Per non dire delle foto, o delle lettere, o di quello che arriva con un nastro registrato dove racconta una storia che g li è successa 40 anni fa è che è importante perché aiuta a capire quello o quell’altro.
“Ora siamo a una svolta: noi il “museo degli operai” lo vogliamo fare e in un certo senso lo abbiamo fatto. Ma è il momento di sentire altre opinioni. Ecco perché per prima cosa abbiamo deciso di pubblicare, speriamo per la fine di settembre, il diario delle nostre riunioni. Veramente non è proprio un diario: piuttosto una cronaca molto scarna di cosa abbiamo discusso, dei problemi che si sono posti e di come via via siamo arrivati fino a oggi. Sarà disponibile su un sito: ce lo sta preparando il nipote di uno di noi. L’idea è: “allargare il gioco”. Vedremo.
(Manlio Calegari)