Linguaggio – Duchi, marchesi e autorità

In mezzo a tante cronache convulse, in questi giorni è comparsa anche qualche notizia dai contenuti folcloristici (si fa per dire). La Repubblica-Il Lavoro del 6 aprile ci informa sotto un titolo a tutta pagina che “trecento invitati: nobili, autorità, deputati e sanatori” (sic: involontaria ironia del refuso) si ritroveranno “sotto gli stucchi di Palazzo Pallavicini in piazza Fontane Marose per salutare Vittorio Emanuele di Savoia, la moglie Marina Doria, il figlio Emanuele Filiberto, la nuora…”


L’appuntamento è per il 3 maggio e “il mondo della nobiltà è già in fibrillazione”: scalpitano principi, marchesi, conti, baroni e parvenu, ma non solo perché –avverte il proprietario della splendida magione– i trecento cartoncini d’invito “non sono stati recapitati solo ai rappresentanti della nobiltà genovese, ma anche alle personalità politiche e non, alle autorità…”, insomma a coloro che contano.
Per chi non avrà neppure la curiosità di passare quel giorno davanti al palazzo, non può sfuggire lo sfoggio di citazioni anacronistiche: principe, duca, barone, ecc. sono titoli di origine regale aboliti dalla Costituzione repubblicana (tanto invisa a lor signori); non solo sono privi di alcun riconoscimento legale, ma non esistono proprio. E la pervicacia con cui certe cronache insistono nel riproporli non è priva di un suo significato di vassallaggio o quanto meno di ossequio verso un certo passato e non solo.
A Vittorio Coletti, linguista illustre (non diciamo principe per innato rifiuto dei titoli araldici), bisognerebbe chiedere di dare una mano: com’è possibile aggiornare il vieto linguaggio mediatico corrente? Non è più accettabile sentir citare continuamente come Autorità, e sui giornali persino con la A maiuscola, persone che hanno incarichi pubblici sia pure di rilievo, insomma che hanno il compito di rappresentare le istituzioni pubbliche, quindi noi cittadini e in ultima istanza quella stessa legge di cui proprio le caste del privilegio hanno sempre fatto strame. Non può sfuggire il senso antidemocratico, magari inconscio, insito nell’uso di un lessico così sciatto. Certi cascami linguistici non sono per nulla casuali. E se il professor Coletti, con l’autorità, questa sì autentica in quanto derivata dalla cultura, promuovesse una campagna di revisione critica della peggior terminologia usata dai media, sarebbe un primo passo, non da poco, nel lungo lavoro di ricostruz ione che aspetta questa nostra malconcia società per avviarsi verso standard più civili, anche a livello di informazione.
(Camillo Arcuri)