Cinema – Abbandonata dal marito e anche dal regista

L’occasione è quella di una domenica uggiosa di fine settembre per infilarsi in una sala e assistere alla proiezione tanto “violentata” dalla critica de “I Giorni dell’abbandono” di Roberto Faenza. Occasione ancor più speciale perchè i giudizi contrastanti dei critici cinematografici, spesso e volentieri sono inaffidabili. Risultato: circa due ore di proiezione con assenza totale di dolore, componente essenziale del romanzo di Elena Ferrante, dal quale è tratto il film, che descrive l’angoscia e il travaglio interiore di una donna abbandonata dal marito.


Cosa manca? Ovviamente il dolore e poi tutto il resto. Mancano l’atmosfera e lo spessore nella recitazione, la sceneggiatura traballa come pure il montaggio. E allora, quel terribile senso di abbandono, di solitudine che ci tolgono il fiato, ma dove sono finiti?
Cosa c’è? Un gran pastone pretenzioso: l’interpretazione simil-forzata di una sprecata Margherita Buy alle prese non solo con l’abbandono da parte del marito ma anche con l’abbandono da parte del regista. Per non parlare dell’impacciato Luca Zingaretti e di Goran Bregovic, formidabile musicista, trasformatosi per l’occasione in perfetta marionetta del Gianicolo. Forse anche lui si sarà chiesto “che ci faccio qui? Insomma, un film in balìa dello smarrimento recitativo generale. Il tutto confezionato da Roberto Faenza, considerato il regista più “psicanalitico” del cinema italiano, il quale non è stato in grado di trasmettere i messaggi base di questa storia, dolore, cupezza, angoscia, devastazione, abbandonandoci invece in una dilagante superficialità e in un vero e proprio “senso di vuoto”.
E’ sufficiente il paragone con un altro film “commerciale”, “La bestia nel cuore”, uscito in contemporanea nelle sale, che tratta anch’esso di dolore e di cui Cristina Comencini è regista e autrice del romanzo omonimo. Qui la sensazione è differente, si riceve un “nutrimento” quello che finalmente ci si aspetta dalla letteratura, dall’arte, dal cinema.
L’impatto è semplice (anche se gli errori non mancano, forse c’è qualche presenza ingombrante) e il messaggio è rigoroso ed intenso, qui ci si trova di fronte ad un altro tipo di dolore, dalle dinamiche arcaiche, che si lascia respirare in un crescendo profondo ed equilibrato, senza l’aggiunta di orpelli e inutili manierismi, lo si riceve, lo si assorbe e lo si interiorizza grazie ad ingredienti fondamentali come la buona direzione degli attori, caratterizzata da una recitazione corposa e spontanea, il tutto accuratamente ben amalgamato (o quasi).
(Elena Giusti)