Wiesenthal. Il cacciatore solitario
Alla fine della seconda guerra mondiale, il mondo e l’Europa in particolare, dovettero fare i conti con l’antisemitismo, la cultura del nemico, dei cattivi che per fortuna avevano perso la guerra. La documentazione e le immagini dei campi e dello sterminio furono la base dei processi che si conclusero a Norimberga nel 1946 con le condanne a morte e a pene detentive del gotha del nazismo. La guerra era finita da poco e istruire i processi non era stato facile. Con tutto ciò la massa documentale esibita fu enorme e convincente. Poi cominciò l’oblio.
Ragioni politiche, diplomatiche si mescolarono al desiderio di dimenticare di molti che erano stati protagonisti dello sterminio, sia come come persecutori, sia come vittime. La memorialistica dei reduci dai campi vide accrescere i suoi titoli ma rimase per anni un cibo per addetti ai lavori. “Se questo è un uomo” il libro di Primo Levi, pubblicato poco dopo il ritorno del suo autore da Auschwitz, restò ignorato fin quasi alla fine degli anni Sessanta prima di diventare un’opera cult. Ci vollero pressappoco 20 anni prima che l’Europa riuscisse a guardarsi allo specchio a interrogarsi su ciò che era realmente avvenuto e su come fosse stato possibile. E’ un altro punto a merito dei bistrattati anni Settanta. Perché è da allora che abbiamo cominciato a guardare e guardarci dentro. E a pensare che le impiccagioni e le condanne al carcere per una trentina di caporioni decise a Norimberga non fossero sufficienti per chiudere la partita con la storia. Da allora sono stati trent’anni. Trent’anni dedicati ad approfondire attraverso casi, ricordi, processi il nesso profondo che lega le responsabilità individuali a quelle collettive, le decisioni dei governanti a quelle dei governati. L’approdo simbolico di questa lunga e sofferta ricerca è stata la giornata della memoria del 27 gennaio di ogni anno, convenuta in Italia con legge 20 luglio 2000. Simon Wiesenthal, morto di recente e delle cui gesta tutti i giornali hanno parlato, ha contribuito in modo molto personale a questa nobile conclusione. Era convinto che la stessa formula “criminali nazisti”, isolando un pugno di perversi caini dal resto della popolazione, giocava a favore della tesi che rappresentava il nazismo come l’espressione delirante di un gruppo di sciagurati. Ma aveva intuito come l’individuazione e la consegna dei criminali nazisti alla giustizia sarebbe stato lo strumento più efficace per cogliere la normalità burocratica dello sterminio anziché la natura psicopatica dei suoi ingegneri. Per questo mise in piedi una organizzazione e dedicò la sua vita a cercarli e a catturarli. Una inquietante coda del lontano processo di Norimberga di cui spesso l’amministrazione della giustizia tedesca, israeliana (ma non solo) avrebbe volentieri fatto a meno. Nei giorni scorsi, dopo la sua morte, in molti hanno ricordato il libro “Il girasole. I limiti del perdono”, pubblicato nel 1976, dove, ricordando le sue esperienze del lager e la sorte dei suoi compagni di sventura, chiedeva a una quarantina di intellettuali di giudicarlo per aver negato il perdono a un SS che in tempo di morte glielo avevo implorato. Wiesenthal aveva intrapreso una guerra solitaria più crudele delle guerre normali e molto meno rassicurante. Non c’erano fanfare per le sue catture, per i pacchi di documenti fatti pervenire a questo o quel tribunale. Ne “Il girasole” chiedeva un giudizio sul suo operato di cacciatore. Ricevette parole di stima, comprensione e anche approvazione. Ma tutto ciò non diminuì la solitudine iniziata da quando alla fine della guerra aveva rovesciato le parti e da cacciato si era fatto cacciatore.
(Manlio Calegari)