Immigrati. Quando sei nato, a volte, devi nasconderti
Dentro il film di Marco Tullio Giordana, fra sguardi bambini e visioni da adulti, c’è tutto il mondo che normalmente percepiamo. Il mondo delle immani sciagure, dei delitti efferati, delle difficili convivenze spaziali.
Nel film, tratto dall’omonimo romanzo di Maria Pace Ottieri, l’incolmabile distanza fra noi e “loro” si misura proprio nella volontà di circoscrivere, eludendo il confronto, quell’altro al quale non siamo in grado di dare risposte e del quale temiamo le domande.
Solo i bambini tendono la mano (come già nel film di Salvatores “Io non ho paura”), cercano delle risposte possibili, compiono (ai nostri occhi assuefatti) atti di vero coraggio: guardano, da un altro (partecipe) punto di vista.
Alcune sequenze di quello che a tratti sembra un vero e proprio documentario (uso della camera a mano), senza negarsi il gusto della citazione (musiche e immagini della discesa nel ventre del mondo da “Lezioni di piano” di Jane Champion), sono quanto mai significative.
L’occidente democratico e opulento risolve le tensioni (anche di coscienza) mettendo mano al portafoglio: è questa la strada del padre brianzolo, felice per aver ritrovato il figlio (che credeva morto in mare durante una crociera in barca a vela), ma incapace d’esprimere gratitudine ad un giovane rumeno se non attraverso l’offerta di denaro.
Costretti a nascondersi nei CPT, divisi dai propri familiari, o nei relitti abbandonati d’un passato industriale, non riconducibili a griglie precostituite, gli immigrati ci costringono a ripensare a noi stessi, al nostro passato, ai nostri modelli di sviluppo, alla nostra “crescita”.
A volte, senza nessuna intenzione didattica, ci offrono delle vere lezioni: il musicista Badarà Seck, scoperto da Mauro Pagani, al lavoro con Miriam Makeba e Massimo Ranieri, stimato da registi come Peter Brook e Claude Lelouch, ha abbandonato il confort di un appartamento in Lungotevere Flaminio (offertogli da Ranieri) per tornare a vivere con i fratelli africani nel Residence Roma (“Un ghetto per “senza casa” dove le luci no si accendono mai, l’acqua non scorre se non dai soffitti sfondati … e la polizia entra soltanto quando ci scappa il morto”).
Da lì, aiuta la comunità senegalese, insegna musica ai più promettenti, lavora alla realizzazione del suo primo CD. “Con i miei testi vorrei dire agli africani di imparare dall’Occidente a prendere in mano il proprio destino senza più farsi sfruttare, e agli occidentali di imparare dall’Africa l’importanza dei rapporti umani e della natura. Se non comunichiamo, non ci conosciamo, non c’è futuro”.
“Il destino è potente” dice Badarà.
Non ci sono steccati o medicine demagogiche in grado di fermarlo.
(La storia di Badarà Seck è apparsa su “Il Venerdì” di Repubblica del 03\06\05)
Tania Del Sordo