To coach. Come ti rieduco il buon manager

Una delle pubblicità pubblicate domenica sul Secolo XIX riguardava dei corsi di “Counseling and coaching”. Ma guarda! In questo ultimo mese già due volte mi sono trovata ad ascoltare degli strani racconti su iniziative di “coaching”, una in un grande call center (circa trecento dipendenti), l’altra in un ramo dell’Ansaldo.


Dunque, si tratta di questo. Ad un gruppo di dipendenti selezionati in base ad alcuni criteri (il ruolo ricoperto, un fattore premiale, l’aver accettato di inserirsi in un qualche percorso di miglioramento della qualità) viene proposto di partecipare ad una “convention”. Le persone vengono portate in un luogo bello, isolato (una villa in Piemonte, una località in Sardegna …) e la mattinata passa in discorsi sull’azienda, su come tutti sono bravi, sui progetti per il futuro… Poi è la volta delle attività.
In un caso le persone sono state messe a costruire un “ponte tibetano” sopra un torrentello. Ponte sul quale poi tutti dovevano passare. Nell’altro ai convenuti sono stati messi in mano chiodi, martelli, tavole di legno e sono stati invitati a costruire con le loro medesime mani panche, tavoli e sgabelli per il picnic sociale.
L’azienda gestrice del call center si è spinta oltre: ha anche messo la gente in giro ad uno psicologo che doveva educarli alla “assertività”. L’ambiguità del contesto falsamente simil-terapeutico ha agito come trabocchetto per le persone più esposte e fragili che si sono messe a parlare pubblicamente di sé, dei loro propri casi intimi e personali. Si sono registrate crisi di pianto.
Su internet, le informazioni sul “Coaching” non mancano. Una sezione del sito di Amazon esplicita gli obiettivi di questa attività gestionale: spingere gli impiegati a dare il meglio di sé e a sentirsi “orgogliosi” del loro lavoro e della ditta in cui operano. Il “Coach” deve sapere “raccogliere informazioni”, cioè assorbire tutto il possibile dall’impiegato senza che lui (o lei: il politically correct è d’obbligo) se ne renda conto. Il Coach deve apprendere ad “ascoltare con un terzo orecchio” prestando soprattutto attenzione al linguaggio non verbale, ed essere “consapevole” di tutto ciò che gli avviene in giro. “To coach” è diventato un verbo. I responsabili delle risorse umane devono imparare a “to coach” i loro impiegati: per ottenere da loro le massime “performances”, per sviluppare i loro “skills”, per sviluppare il loro “empowerment”. In questo modo, dicono, non ci sarà più bisogno di vecchi (e costosi) metodi quali offrire ricompense economiche o di avanzamento di carriera o di miglioramento delle condizioni di lavoro. Basterà infatti essere capaci a “To boast” la forza lavoro, cioè a renderla orgogliosa di quel che fa, anche se trattasi di lavoro totalmente svuotato di senso, come avviene nei call centers.
Le persone con cui ho parlato avevano precisa coscienza dell’orribile inganno manipolatorio di tutto ciò, ma questa ahimè non è la regola: una di loro mi diceva di aver visto più di uno/a dei suoi colleghi/e trasformarsi “da così a così” nel giro di qualche mese. Coached.
(Paola Pierantoni)