Sanità/1. Perchè gli infermieri rifiutano gli ospedali

Sono un tossico della cronaca. E’ l’unico rimedio contro l’orgasmo ideologico. Il solo capace di mettere in discussione la presunzione dell’esperienza o il desiderio di sintesi. Come succede quando i fatti (di cronaca) oltre a fare a pugni con i nostri pregiudizi, confliggono tra loro. Prendete la notizia comparsa sui quotidiani locali del 21 maggio ’05: “Al concorso per infermieri professionali si è presentata la metà dei candidati che avevano presentato la domanda e tra i dodici che hanno completato le prove e sono stati dichiarati idonei cinque di loro hanno già fatto sapere alla direzione di Villa Scassi che rinunceranno all’assunzione”.


Ecco qualcosa che non quadra. Come è possibile che al tempo d’oggi i posti “fissi” vengano snobbati? Vorrei sapere… Chiedo ad alcuni amici, tutti che per vari motivi lavorano nel settore. Ecco il piatto.
Amico n° 1
Già da alcuni anni la carenza di infermieri affligge le strutture sanitarie. Al punto che i partecipanti ai concorsi valutano, non appena hanno la possibilità di acquisire informazioni esatte, se presentarsi o rinunciare, magari solo in relazione alla destinazione di lavoro. In un’azienda come la ASL 3 genovese, ad esempio, che copre un territorio che va da Cogoleto a Camogli i candidati presentano domanda, e, quando ottengono informazioni precise sulla sede di destinazione, fanno la scelta che ritengono più opportuna. Il problema è che da tempo l’infermiere è merce rara. Nei primi anni Novanta, per incentivare la frequenza ai corsi per infermieri professionali, la Regione attribuiva agli studenti una borsa di studio, un rimborso per i libri di testo, la facoltà di usufruire della mensa ospedaliera. La regione e le USL affiggevano manifesti in giro per la città con l’accattivante foto di un’infermiera e la scritta “INFERMIERE: UN LAVORO SICURO.” Tra gli effetti c’era stata un’ondata di nuove leve, addirittura sovrabbondante. Molti infermieri restavano “a spasso” in attesa di trovare sistemazione negli ospedali e spesso dovevano accontentarsi della clinica privata. In seguito, anche sulla spinta dei collegi degli infermieri e per soddisfare l’ambizione di chi infermiere già era, si è trasformato il corso professionale in laurea breve. Così invece di un corso professionale dopo il biennio di scuola media superiore, abbiamo una laurea universitaria (ovviamente dopo la maturità). Il trattamento economico e la “posizione sociale” non corrispondono però a quelli di un “laureato” e le iscrizioni sono in calo. In Friuli Venezia Giulia si sta ovviando con accordi con le repubbliche dell’ex Jugoslavia per acquisire infermieri (provenienti peraltro anche da Romania e Polonia). I problemi in questo caso derivano, oltre alle difficoltà di ambientamento, linguistica e logistica, anche dal fatto che nelle aspettative di questi lavoratori c’è il ritorno a casa dopo un periodo di tre, quattro anni di attività in Italia. Sembra che l’ASL Genovese stia ipotizzando accordi con L’Ucraina per l’acquisizione di infermieri di quella nazionalità, che sembrerebbero intenzionati ad una permanenza stabile sul territorio italiano.
Amico n°2
Potrebbe darsi che siano incaricati di mansioni inferiori in qualche altro posto, che però non ha bandito alcun concorso, e pensino di far valere lì la loro idoneità.
Amico n°3
A me come notizia risulta strana: tuttavia so che nelle varie aziende sanitarie c’è una generale carenza di infermieri, che, almeno fino alla scoperta del “buco” da parte di Burlando, erano l’unica figura professionale, per la quale era ammessa l’assunzione. In generale si dice che si tratta di un lavoro pesante e stressante, per cui la richiesta di occupazione è bassa, anche se gli stipendi sono accettabili e soprattutto si tratta di lavori non precari. Comunque la notizia mi lascia perplesso.
(Manlio Calegari)