Libri d’oggi. Colpo di stato e scoop proibiti

Perché tornare a parlare del golpismo e delle stragi italiane? Perché, scrive Camillo Arcuri (Colpo di Stato. Storia vera di una inchiesta censurata. Il racconto del golpe Borghese, il caso Mattei e la morte di De Mauro, Rizzoli 2004, pp. 143), è inaccettabile seppellire ciò che è rimasto impunito e – peggio ancora – nell’oscurità.


Per quel che lo riguarda Arcuri scrive anche per sciogliere un rovello, un “tacito senso di colpa” che lo ha accompagnato durante gli anni della professione a partire dal settembre 1969, dunque poche settimane prima della strage di piazza Fontana, l’inizio d’una catena di sangue che sarebbe durata a lungo.
Nel settembre del 1969 infatti l’allora quarantenne Camillo Arcuri con l’esperienza e il fiuto del giornalista d’inchiesta si vide recapitare da fonte sicura tre paginette prive di intestazione dove l’estensore, un ufficiale dei carabinieri, informava con distacco burocratico un destinatario facilmente immaginabile, che un gruppo di congiurati stava preparando un colpo di stato per trasformare l’Italia in una repubblica di banane. Dei congiurati riunitisi a Genova nella villa di un famoso industriale, il rapporto forniva nomi, ruoli, impegni. Era tutta gente che contava e Arcuri consapevole dell’autorevolezza della fonte che gli aveva fatto arrivare il documento si era convinto di due cose: che si trattava di una cosa seria e che il caso aveva scelto lui per accendere le polveri. Era l’occasione della sua vita: avrebbe potuto far vedere al mondo che lui era il giornalista che sapeva di essere e che il mestiere che amava e aveva scelto ostinatamente e con sacrifici faceva tutt’uno con l’idea politica che aveva dentro: servire la verità e la giustizia.
Perché il desiderio di verità e di giustizia, sia pure mescolati con quello di vincere la battaglia della professione, costituiva l’elemento personale, non casuale della storia raccontata da Camillo. Una storia – nel testo accennata con pudore – che aveva avuto i suoi segni forti ben prima di quel giorno del settembre ’69 quando nelle tre paginette aveva visto materializzarsi lo scoop della sua vita. Segni importanti che risalivano all’infanzia. Come lo specialissimo rapporto col padre, antifascista, comunista e tipografo che per virtù civili e pratica di mestiere si era collocato alle radici del sogno di Camillo di diventare giornalista. C’era poi un avvocato, borghese ed ebreo, che aveva dato più volte prove della sua amcizia al padre di Camillo e che in seguito alle leggi razziali era stato spedito al confino. C’era infine un compagno di giovinezza, di 4 anni più grande di Camillo, una specie di fratello maggiore, maestro di piccole scorribande, capace di parole che solo i ragazzi conoscono quando parlano tra loro. Era lui il terzo cavaliere senza paura, forse il più amato certo quello da cui si era separato nel modo più lacerante. Camillo aveva fatto a tempo a vederlo morente in un letto d’ospedale – era stato catturato mentre con altri saliva in montagna per sottrarsi a Salò – dopo averlo raggiunto con una lunga corsa in bicicletta. Una corsa che nella sua testa non era mai finita perché la morte ripugna ai giovani e non è credibile neppure quando si materializza nel modo più crudo.
Questo ed altro c’era nel DNA di Camillo Arcuri il giorno di settembre del 1969 in cui una “autorevolissima” fonte gli aveva fatto pervenire le tre paginette col piano golpista. C’era ad esempio la sua determinazione nell’affrontare il caso, fortissima quanto cocente era stata la sconfitta, evidente sin dopo le prime settimane quando si era reso conto che nessuno degli articoli che aveva passato al suo giornale aveva superato il filtro del suo direttore. Resa ancora più cocente dal dover constatare che non era contro l’incredulità che doveva combattere ma col fatto che tanti e forti erano quelli sapevano; gli stessi che lo censuravano.
Perché tornare a parlarne? Perché il DNA maturato da Arcuri aveva prodotto un sentimento che negli anni seguiti a quel terribile 1969 lo aveva tormentato non poco. Di non aver fatto tutto quello che avrebbe dovuto fare o che era necessario fare per imporre la sua verità, la sua notizia. Come invece avrebbero sicuramente fatto i suoi mitici cavalieri senza paura conosciuti durante la giovinezza: il padre, l’avvocato ebreo, il giovane amico ucciso in seguito al gesto di ribellione.
Non aveva fatto ad esempio quello che invece aveva fatto un altro collega. Mauro De Mauro – ma questo Camillo e gli italiani lo avevano saputo più di 30 anni dopo – che all’epoca aveva scoperto le stesse cose. Anche lui, come Camillo, inutilmente perchè qualcuno lo aveva ucciso e fatto sparire prima che riuscisse a raccontare la sua verità che in seguito, quando finalmente era emersa, era risultata incomprensibile e quasi patetica a causa del trascorrere del tempo.
Il racconto di Arcuri, breve ed incisivo, si colloca tra queste due date: il settembre ’69, quando qualcuno aveva deciso di usarlo per fare sapere (ma a chi?) del golpe, e il gennaio 2001 quando per la prima volta la stampa aveva associato l’assassinio di Mauro De Mauro all’inchiesta sul golpe Borghese del 1969-70. Da lì il bisogno insopprimibile di Arcuri di “riprendere la biro” per ricostruire la terribile storia di bugie, depistaggi, sofferenze di un paese che ancora oggi non conosce la verità. La verità che – suggerisce l’autore – nessuno di noi cerca mai abbastanza e che per essere trovata deve essere cercata con ostinazione, come del resto gli avevano suggerito negli anni dell’infanzia i suoi cavalieri senza paura.
(Manlio Calegari)