OLI 383: TEATROGIORNALE – L’ultima predica
– Io sono figlio di Chlomo e questo è il mio tempio, io sono figlio del re Salomone e invoco il ritorno a quell’era di giustizia e saggezza.
L’uomo alto e moro è davanti al muro, parla con voce profonda, fa ampi gesti con le mani, è vestito con una lunga tunica bianca e un kippà. I numerosi avventori che affollano il muro gli passano attorno come formiche, sono tutti occupati a fare qualcosa: foto, infilare foglietti nel muro, togliere foglietti, pregare, baciare il muro, leggere, sussurrare tra le pietre, appoggiarci la testa, accarezzare il muro.
– Io sono figlio di Avraham che su queste pietre legò la sua primogenitura per compiacerti. Io sono il figlio di Abramo e ti prego di salvare tutti i miei figli così come salvasti Isacco.
Un gruppo di turisti americani, in pantaloncini chiari e cappellini su corpi sfondati da bevande ipercaloriche, si allontana.
– Io sono il figlio di Yaacov che un giorno fece un sogno: una scala da terra si protendeva fino al cielo, angeli vi salivano e vi scendevano. Dio parlò e disse a Giacobbe che lì era la terra dove sarebbero prosperatI i figli benedetti e amati dall’Unico.
L’uomo moro in kippà corre e disegna coi suoi passi un quadrato, per farlo deve spintonare una scolaresca di dodici o tredicenni che si lamenta, il professore di appoggio va a chiamare una guardia. L’uomo si sdraia a terra.
– E aspetto l’arrivo di Mashiach, il messia!
Un uomo con il cappello nero e la barba si avvicina all’uomo moro in kippà e cerca di farlo alzare ma l’uomo è rigido e fermo, le mani lungo il corpo, i palmi rivolti a terra, gli occhi sbarrati. Una donna, che parla ebraico con un pesante accento tedesco, chiede: – Ma è matto?
– O vede dove noi non possiamo arrivare.
L’uomo moro in kippà salta in piedi con un balzo.
– Tito cercò di distruggerlo e non lo fece per intero, lasciò questo muro perché qui noi potessimo tornare, fino all’ultimo dei tuoi figli Israel.
Il professore d’appoggio della scolaresca indica l’uomo moro col kippà a un giovane soldato.
– Tutti cercano di espropriare la tua patria Israel.
L’uomo in kippà si mette una mano dentro la tunica per trar fuori il tefillin Shel Rosh per la preghiera.
– Perfino il cavallo alato al-Buraq è stato legato sulle tue pietre per permettere a chi urla ‘Allahu Akbar’ di chiedere un posto vicino ai tuoi figli.
L’uomo moro con il kippà urla con le braccia aperte e in mano la scatoletta di pelle scura contenente brani della Torah.
Le parole rimbalzano sul muro, il soldato prende la mira e spara al petto dell’uomo con la kippà.
– Perché hai sparato? chiede l’uomo con il cappello nero e la barba – Era un ebreo come noi, stava per mettersi il tefillin.
Il giovane soldato si guarda attorno spaventato – Ho avuto paura – sussurra. – Mi hanno detto che si comportava in modo strano, stava prendendo qualcosa dalla tasca… ho avuto paura.
– Queste parole […] le legherai come segno sulla tua mano, e siano sulla tua fronte, fra i tuoi occhi. -Così dicendo l’uomo col kippà bacia la scatoletta che contiene brani della Torah e muore.
Tutt’intorno si è fatto silenzio, molti guardano con gratitudine quel giovane soldato dal volto pallido e sudato che li ha salvati.
(Arianna Musso)