OLI 402: LAVORO – Salute, lobby e serial killer
Sempre più frequentemente una serie di eventi correlati alla qualità del lavoro inducono l’opinione pubblica a porsi una serie di domande specificatamente riferite al rapporto fra il lavoro, anzi il mantenimento del posto di lavoro, (perché c’è la crisi, perché il Paese ne abbisogna, perché è necessario tenere i piedi per terra e stare attenti ai paesi dell’Est, perché lì costa tutto meno ed un operaio guadagna un Euro l’ora che nemmeno i cinesi) ed il suo impatto sulla salute degli addetti, se pur nella salvaguardia dell’ambiente circostante il sito produttivo.
E’ sinonimo di civiltà o di inadeguatezza del mercato lavorare in sicurezza nel rispetto dell’ambiente? Se ci si riferisce a chi lavora all’interno dell’impresa, non possiamo che pretendere la verifica del rispetto di quanto è considerato il significato del termine stesso “salute”, cioè lo “stato di completo benessere psico fisico e sociale dell’individuo”, e scusate se è poco. Tale definizione non è un parere filosofico, etico o quanto risultante da una discussione fra saggi o letto in un fumetto di Cipputi, ma quanto per legge è obbligatoriamente compito di colui il quale ha “obbligo di prevenzione” nei confronti dei lavoratori: il Datore di Lavoro in una qualsiasi delle varie forme in cui nell’ordinamento italiano si manifesti.
Obbligo di prevenzione, non libera scelta. La filosofia infatti dell’impianto prevenzionistico vigente definisce un percorso routinario dal quale egli, il Datore di Lavoro, non può esimersi prima di svolgere una qualsiasi attività lavorativa infatti, deve immaginare gli eventi pericolosi che possono manifestarsi per la salute dei lavoratori che intende impiegare, affrontarli e eliminarli o ridurli a quanto definibile come un livello di sicurezza accettabile.
Lo sviluppo di questo percorso legislativo è relativamente recente e si è trasformato nel tempo, è il risultato di lotte operaie e sindacali a seguito di decine di migliaia di morti causati da infortuni sul lavoro, centinaia e centinaia di migliaia di feriti gravi, di arti amputati, di schiacciamenti fratture e cadute, di intossicazioni, organi interni deteriorati, sordità, cecità, dolore e sangue, tanto ma tanto sangue. E orfani e vedove in lacrime, e bandiere ai funerali.
Sino all’altro ieri non era impedito dalla legge monetizzare il rischio, cioè incentivare il lavoratore a svolgere una attività per varia natura rischiosa pagandolo per affrontare il pericolo, nelle buste paga dell’epoca si potevano leggere a chiare lettere e senza possibilità di equivoci ad esempio i valori orari di indennità orarie a fronte di esposizione a sostanze chimiche.
La esposizione al pericolo in quel periodo veniva spesso scambiato con ore di permesso, ferie aggiuntive, turnazioni agevolate, premi in varia natura. Allora non c’era la crisi, anzi si era in piena ricostruzione, boom economico post bellico, il potere contrattuale all’epoca elevato veniva speso anche per tali scopi, sia a livello individuale che collettivo.
Certo, prima era ancora peggio, brutti periodi per la contrattazione, durante la trasformazione industriale delle fabbriche, la Grande Crisi, la produzione bellica con il massiccio uso di sostanze pericolose ed esplodenti, l’Autarchia, le due guerre.
I rapporti di forza, le Società Operaie, il Sindacato, le Piazze, la direzione e veicolazione della capacità contrattuale e i sempre tanti, troppi morti sul lavoro hanno trasformato ed accresciuto l’impianto normativo rendendolo quello attuale, ma mai nulla venne regalato, ma anzi sempre scontrandosi con la forte ritrosia della controparte per la quale la sicurezza non è mai un investimento, ma un costo, sopratutto laddove il pericolo è sinonimo di “mala”organizzazione del lavoro.
Come sempre è avvenuto sono stati proprio gli eventi di maggiore gravità a promuovere e sviluppare percorsi di prevenzione dedicati e maggiormente incisivi, eventi che a volte vengono ricordati con nomi che oggi poco ci ricordano, ma che all’epoca sviluppavano tale risonanza da non poter essere ignorati come la tragedia nella miniera di Ribolla con il conseguente sviluppo della prevenzione in ambito minerario e la nascita dei primi “Rls” della storia negli anni ’50, o la storia dell’incidente di Seveso ed il cancro da diossina, la legge Lama, la Tito Campanella, La Thyssen, le morti multiple nelle stive di cereali, in silos e ambienti confinati determinanti la legge 177, e solo ieri la Torre in porto a Genova e le nuove successive regole che ne conseguono.
Nel frattempo si trasformava e specializzava Medicina del Lavoro, si acquisivano nuovi dati di pericolosità di sostanze da tempo in uso e si riducevano i livelli limite di esposizione, laddove sino al giorno precedente un quantitativo soglia limite di esposizione ad una sostanza veniva considerato come un adeguato livello di protezione, poteva venire nel tempo sostituita con altri valori maggiormente protettivi, sviluppando nel frattempo più adeguati percorsi di sorveglianza sanitaria per gli esposti.
In epoca ormai lontana era considerato un toccasana sparare in atmosfera fumi e polveri tossiche ad elevata temperatura dalla bocca di una alta ciminiera, sino a quando il legislatore è stato costretto a recepire il fatto che prima o dopo gli inquinanti sarebbero ricaduti nell’ambiente circostante e che i cittadini tutti, anche non lavoratori, da tali rifiuti avrebbero dovuto essere protetti, ma oltre ai lavoratori esposti nel ciclo produttivo, anche i terreni, le piante e gli animali, l’ambiente tutto divenne oggetto di prevenzione. Si incominciò a pensare che l’essere in cima alla catena alimentare potesse non essere, in caso di siti inquinati, una grande soddisfazione.
Mentre nel sottobosco dei palazzi romani lobby trasversali si occupavano, spesso riuscendovi (ieri come oggi), di modificare l’impianto prevenzionistico edulcorandolo e rendendolo meno impositivo per quanto riguardante le norme di salute e sicurezza sul lavoro, imprenditori di piccole e medie imprese sotterravano inusitate quantità di sostanze tossiche e rifiuti pericolosi, veri sottoprodotti del proprio ciclo produttivo, spesso con la connivenza di amministratori locali. Per molti piccoli proprietari terrieri divenne per anni, decenni, l’unica possibilità di far fruttare i propri terreni, non a caso le terre dei fuochi, che sono tante nella penisola, sono prevalentemente dislocate in zone economicamente depresse. Non solo nel centro sud italiano, ma anche al nord, laddove veniva effettuato uno scavo per una bretella autostradale, per un molo o si esauriva una cava, nottetempo, ma spesso anche alla luce del sole, camion in retromarcia riempivano buche con materiali dai contenuti più vari, dai radioattivi ai rifiuti sanitari, metalli pesanti, sostanze velenose, fumi di fonderia. Dopo una ruspa compiacente era sempre pronta a coprire e nascondere le buche.
Di norma le aziende di piccola dimensione erano autosufficienti, ma per le grandi era necessario ricorrere a veri professionisti dello smaltimento clandestino, un business di dimensioni colossali che, per logistica ed attrezzature, ha permesso a svariate organizzazioni malavitose di specializzarsi diversificando la propria attività, Eco-Mafia è il termine corretto con cui chiamare questo ambiente. Ma attenzione i malavitosi sono senza dubbio i gestori del traffico, ma non da meno sono tali i produttori di rifiuti, gli autisti dei mezzi, gli armatori con i colletti bianchi delle compagnie di navigazione che buttavano in mare i fusti inquinanti o che a volte affondavano le navi colme di veleni, così come i Comandanti e gli ufficiali e gli equipaggi, ricattati con lavoro sicuro in cambio del silenzio.
Ma i grandi gruppi industriali, sia pubblici che privati o partecipati, hanno da sempre usato metodi diversi: lobby di pressione, acquisto di consensi nelle amministrazioni locali o regionali o direttamente nei governi, l’uno per l’altro, atti a garantire una sorta di patto di non aggressione, la certezza di non essere controllati o, spesso, di avere dalla propria i controllori, i certificatori, i periti, gli ispettori, gli amministratori, burocrati che con un timbro giusto di forma e colore, siano in grado di asseverare il processo, di garantire che quella polvere cancerogena che uccide non paia poi così pericolosa, che l’abbattimento degli animali infetti passi sotto silenzio, che i cavoli radioattivi dell’orto siano stati irradiati dai marziani, che la scientificità dei dati presentati dai superstiti possa essere contestata, pagando mazzette a tutti, accattivandosi i lavoratori o la cittadinanza utilizzando i circoli aziendali ricreativi gestiti dalle parti sociali o finanziando le trasferte di confraternite di portacristi.
E tutti giù a dar di matto quando le vedove denunciavano, ma venivano comprati giornalisti per condizionare l’opinione del popolo bue.
Il dramma nel dramma è sempre lo stesso, e le domande, oggi come ieri non cambiano. Queste aziende, piccole o grandi inquinano, fanno ammalare, intossicano uccidono. Oggi come ieri. Quelle piccole tutto sommato non importano a nessuno, inquinano è vero, ma poco per volta, hanno pochi dipendenti che si ammalano e pochi inoltre perderanno il posto di lavoro se qualcuno decidesse nel rispetto delle regole di impedire l’inquinamento. Molte di queste probabilmente riescono a stare sul mercato proprio nascondendo sotto il tappeto le briciole, peccato però che le piccole imprese siano la stragrande maggioranza delle imprese italiane e che non ci sia un adeguato numero di controllori per verificarne anche solo una parte consistente e se chiudono l’impatto sull’opinione pubblica è minimo, non occuperanno mai una piazza, ma al massimo l’androne di un portone. Quelle grandi hanno dalla loro un’altra carta da giocare e si trovano alleati con parti di per se antagoniste. Queste sono quelle che inquinano il territorio per chilometri quadrati, intere città. Sono quelle che hanno sulla coscienza centinaia di morti, con amministratori delegati con stipendi a grandi cifre e studi di avvocati specializzati nel prender tempo, pelo sullo stomaco e conti nei paradisi fiscali e stupore di tanto clamore per quello che per loro non è che un danno collaterale, una bomba intelligente che solitamente produce energia od acciaio che, sorpresa sorpresa, negli anni uccide i bambini di cancro.
Certo per i lavoratori di queste imprese non è bello sapere di essere o essere stati esposti continuamente a sostanze che possono procurare danni irreparabili, malattie incurabili e trovarsi ad un certo punto della propria vita a dover scegliere da che parte stare per campare, se pur malamente. Rischiare che, nel pretendere la salvaguardia della propria salute e, perché no, quella dei bambini dei quartieri vicini ci sia il rischio di perdere il lavoro, ‘che fuori c’è la crisi. Legittimamente domandarsi perché l’impresa, gli amministratori locali, gli esperti, non si fossero accorti di ospitare sul territorio un vero serial killer, ma non uno di quelli che ammazza tre o quattro prostitute e si prende l’ergastolo, ma bensì uno che uccide 500 o 1000 persone nell’arco di una decina d’anni e che, come capita, prenderà una multa se mai la pagherà.
Saranno loro forse a dover pagare con una riduzione di diritti e tutele, con meno lavoro, meno certezze nel futuro.
E’ a loro che verrà chiesto, quando scenderanno in piazza con bandiere e striscioni, quante giornate lavorative, quanti posti di lavoro vale un bambino morente di cancro.
E sempre loro, che non c’entrano niente, verranno utilizzati dall’impresa che giocherà la carta del ricatto occupazionale, muovendo le proprie pedine, sempre le stesse, all’Ilva di Taranto come nella centrale a carbone di Vado Ligure.
(Aris Capra – Responsabile Sportello Sicurezza CDML Genova – disegno di Guido Rosato)
Caro Aris, hai scritto una bellissima, perfetta storia che ci descrive, dalla 'terra dei fuochi', a Taranto,a Vado … un abbraccio da Paola