Se il cavalletto diventa lo strumento anti-regime

Un giovanotto di Mantova ha lanciato un cavalletto contro Silvio Berlusconi, perché – come ha detto – lo odia. Il gesto è stato unanimamente esecrato, provocando le solite telefonate di solidarietà e i soliti messaggi benauguranti (in ordine di importanza) di Ciampi, Pera, Casini e via via di tutta la nomenklatura.


Da sinistra si è caldamente auspicato che la cosa non venga strumentalizzata; a destra si è colta l’occasione per denunciare il clima di odio e di violenza alimentato dall’opposizione. Berlusconi esce dall’episodio con un piccolo ematoma e una (piccola) aureola di martire: il conto si chiude a suo vantaggio, e il minimo che da sinistra si possa dire del lanciatore di cavalletti è che è un povero ingenuo e quasi un utile idiota.
Tuttavia, al giudice che dovrà valutare la colpevolezza del micro-attentatore, vorrei suggerire di prendere anche in considerazione la stressante condizione di impotenza in cui si trova chi non è d’accordo con Berlusconi e vorrebbe liberarne l’Italia.
Non serve dire che siamo in democrazia, e che ogni cinque anni si va alle urne, ove il popolo è sovrano. Come si può far valere un’idea quando dall’altra parte un Tizio possiede tre tv, ne controlla altre tre, è proprietario di tutto, e tutto e (quasi) tutti è in grado di “comperare”, può investire miliardi in cartelloni pubblicitari, si fa le leggi su misura, imbottisce il parlamento con i suoi avvocati, che votano “ad personam” le leggi cui poi si appelleranno in tribunale; un Tizio che può tirare in lungo un processo fino a che il reato non cade in prescrizione (o abbreviare ope legis i termini della stessa fino a farvi cader dentro i reati suoi o dei suoi sodali); che se vuole tappare la bocca a un Biagi o a un Santoro basta che ne decreti la caduta in disgrazia, sicuro che servi obbedienti ne trarranno le debite conseguenze; un Tizio che protegge un suo buen retiro sardo con la cortina fumogena del segreto di Stato; che al cosmico conflitto di interessi concede solo la presidenza di una squadra di calcio (in attesa comunque che un’altra leggina su misura lo esoneri anche da questo); che ha introdotto nel vocabolario i neologismi di “salvapreviti” e “salvadellutri”; che sacrifica la volontà popolare alla propria personale amicizia con George e Tony; che sembra aver già deciso che a succedere a Ciampi saranno lui o Gianni Letta, eccetera eccetera?
Forse l’ingenuo don Chisciotte mantovano è stato mosso da un sentimento di questo genere, probabilmente non pago dei suoi diritti di elettore, più sacrosanti che efficaci, e ricordando – forse – che anche i gesuiti autorizzavano la “resistenza all’oppressione” quando non c’era altro da fare. Il risultato del suo gesto si concretizza nella perdita del cavalletto, il che prova soltanto la sua disinteressata buona fede, ma non la sua intelligenza e il suo senso dell’opportunità.
(Luigi Lunari)