Immigrazione – Servi clandestini secondo Rovelli

Venerdì 22 gennaio Marco Rovelli, ospite al circolo Belleville di Genova per la presentazione del suo libro Servi, ci ha parlato di un mondo “altro”, non ufficiale, parallelo alla quotidianità, dove non esistono spazio e tempo, numeri e alfabeto: la clandestinità.
L’opera-indagine di Rovelli (*) sul lavoro sommerso italiano (valutato da varie fonti al 19% del PIL) è volutamente “narrativa”, modestamente non sociologica. Secondo l’autore la riconquista della dignità e della dimensione politica passa attraverso il recupero del valore semantico del linguaggio. Ecco perché volutamente non usa l’espressione “aver dato voce”, estremamente “minorizzante” rispetto ad una delle due parti che interagiscono.


Rifugge dal sensazionalismo della retorica dei media, dal gioco di prestigio delle parole tecniche che si avvicendano nel definire questo mondo, CPT, CIE etc, smaterializzandolo, nel tentativo di rendere alle storie che ha incontrato la loro “esemplarità universale”, unica chiave che ci può restituire la dimensione di co-appartenenza, dunque di condivisione politica.
Il termine clandestino, dal latino colui che sta nascosto alla luce del giorno, l’emblematico per l’attuale equivalenza semantica con criminale, è il cuore da cui Rovelli parte per la destrutturazione della cornice ghettizzante del sommerso e il recupero dell’innocenza di un linguaggio comune. Qualcuno dal pubblico gli ha domandato perché scegliere, assolvendola in fondo, la parola clandestinità piuttosto che schiavitù. Per Rosarno si è parlato di rivolta di schiavi sui giornali. Spiega che schiavitù sottintende in realtà un rapporto di dipendenza personale, laddove invece il clandestino agisce ed esiste fondamentalmente in un mondo del lavoro frammentato. L’esternalizzazione rende difficile identificare responsabili e visibili solo alcuni vertici del caporalato.
Nella piramide dell’economia il clandestino è il margine minimo, oltre il quale è addirittura concesso andare. Al suo lavoro ci si può anche permettere di non corrispondere nulla, in fondo non ha tutele. Si può disporre della sua vita senza correre rischi, la sicurezza non è essenziale. Un eccezionale regola di mercato per migliorare i profitti di pochi e i costi di quello che ci portiamo in tavola. Il passo tra immigrato e clandestino è breve, ce ne accorgiamo. Ma noi, come siamo coinvolti oltre la compassione? Semplice, il clandestino è il precario assoluto, funzionale non solo al ribasso dei costi, ma anche alla limitazione dei diritti di tutti i lavoratori. Non lasciamoci trarre in inganno dalla retorica dei posti di lavoro sottratti ingiustamente e dalle garanzie non più riconosciute per “colpa loro”. Non è il clandestino il soggetto attivo del lavoro, se non come braccia e gambe, le strategie che coinvolgono tutti sono dettate altrove. Salvaguardare i diritti dei clande stini significa difendere quelli di chiunque. Il 1 marzo, giornata del primo sciopero europeo dei migranti (http://primomarzo2010.blogspot.com/), può essere un’occasione per costruire “una rete meticcia”, come l’ha definita Rovelli, di comunicazione tra questi mondi. Teniamolo a mente, siamo tutti clandestini. (*) Marco Rovelli: http://www.marcorovelli.it/
(Maria Alisia Poggio)