L’affresco ritrovato. Il committente ha smesso di imporre le brache?

In questi giorni migliaia di genovesi hanno potuto ammirare gli splendidi affreschi dipinti da Bernardo Strozzi nel Palazzo Lomellini di via Garibaldi e riportati alla luce dopo secoli di oblio, censurati da un controsoffitto imposto dal committente che non aveva gradito il forte naturalismo di alcuni dettagli.


E’ una delle tante perle che questa stagione felice elargisce a noi ed ai “turisti”, una “razza” che fino a qualche anno fa non eravamo abituati a vedere aggirarsi per Genova, al di fuori dei luoghi “deputati” del Cimitero di Staglieno o della presunta Casa di Colombo.
Come in una matrioska russa le diverse facce di Genova rinnovata si sono materializzate in pochi anni davanti ai nostri occhi una dentro l’altra a partire dall’Expò: via San Lorenzo e piazza De Ferrari, via Balbi, via Cairoli, via Lomellini, piazza Caricamento, Piazza Fontane Marose e, infine, la dimensione “sublime” della Strada Nuova con i palazzi restaurati e splendidamente illuminati, gremita da una folla che ha riscoperto orgogliosamente -e con gioia- la propria appartenenza ad un luogo affascinante ed unico.
Certo si potrebbe sottilizzare sul fatto che l’area investita dalla trasformazione continua ad essere quella posta sul perimetro del centro antico e che al suo interno i problemi permangono immutati, al di là della movida serale; o, ancora, arricciare il naso sulla qualità di molti degli interventi realizzati con la stessa povertà culturale da quel comparto edile che, salvo rare eccezioni, ha costruito la grigia ed anonima “città” collinare tra gli anni ’50 ed ’80 del secolo scorso.
Ma la qualità e la dimensione della trasformazione nell’area centrale della città nel suo complesso è tale e sotto gli occhi di tutti da porre in secondo piano questo genere di rilievi; e, piuttosto, richiamare alla memoria quel ragionamento esposto da un assessore all’urbanistica ai sei “saggi” interpellati nei primi anni ’80 sui problemi del Centro Storico -Belgiojoso, De Carlo, Fera, Gardella, Grossi Bianchi e Piano- in base al quale riconosceva loro la titolarità di definire quello che “dovrebbe essere” ma avocava a se, e agli altri componenti del governo della città, la responsabilità di decidere quello che “sarebbe stato”, rivendicando alla politica il ruolo del committente, di colui che sceglie.
La vicenda degli affreschi ritrovati in Palazzo Lomellini ripropone in tutta la sua drammatica evidenza il tema della “committenza” con cui gli artisti -e tra loro gli architetti- da sempre devono fare i conti e, al tempo stesso, rivela in controluce la capacità di sublimazione della realtà propria della dimensione artistica: se Strozzi avesse potuto completare il suo lavoro nulla avremmo saputo della mediocrità o della ristrettezza di vedute di un Luigi Centurione Scotto capace di licenziare su due piedi un artista di quel livello.
Nella sua crudezza l’episodio dovrebbe far riflettere quanti per motivi diversi si trovano a svolgere il ruolo di committente a nome di altri, come i politici ma anche i funzionari pubblici: oggi chiunque di noi avverte quello che Centurione non aveva capito e cioè di essere di fronte a un’opera d’arte, al prodotto di una sensibilità particolare che anticipa quella comune e legge tra le cose, e nelle cose, un mondo più vero di quello reale. E la reazione fu quella di contrapporre la piccolezza delle proprie idee, l’ottusa e presuntuosa graniticità delle proprie certezze, costruite con tempi di maturazione ed attitudini neppur lontanamente confrontabili con quelle dell’impotente interlocutore.
Quante volte banali controsoffitti vengono costruiti al posto di splendidi affreschi che rimangono sulla tavolozza dell’immaginazione e che potrebbero invece riempire i nostri occhi?
(Roberto Melai, architetto)