Prevenzione – Infortuni Cosa ne pensano i lavoratori?
Per saperlo si sono messi insieme due assessorati regionali (Politiche del lavoro e Sanità), la direzione regionale dell’INAIL e un gruppo di ricercatori universitari diretti da un docente della Facoltà di Scienze della Formazione. Lo scopo: produrre materiali utili ad una successiva campagna di comunicazione – condotta dagli stessi soggetti – sullo stesso argomento. I risultati sono finiti in un libricino “Infortuni e malattie professionali. Cosa ne pensano i lavoratori?” con allegato un DVD, pubblicato a fine 2008. Presentazione pubblica (con relativa inevitabile passerella) del volume – sulla cui copertina non appare l’editore – e successiva scomparsa del medesimo. Chissà se i promotori avranno fatto riunioni congiunte per riflettere sul materiale raccolto? Se ne avranno discusso coi sindacati magari per approfondire le questioni più calde?
In altre parole: chissà se il lavoro fatto sarà servito o servirà a qualcosa o il libricino langue dimenticato in qualche deposito?
Sarebbe un peccato. Intanto perché il lavoro sul campo è stato portato avanti da un gruppo di collaboratori occasionali (2 uomini, 35 e 32 anni, e una donna, 30 anni) e si è avvalso anche della collaborazione di alcuni studenti e laureati della stessa Facoltà; giovani, senza chiese da difendere e loro stessi alla scoperta del mondo. Poi perché gli oltre 500 lavoratori italiani e stranieri interpellati, sono stati scelti sulla base delle loro conoscenze e relazioni. Infine il questionario che gli era stato fornito e essi dovevano sottoporre ai loro intervistati è stato usato con intelligenza ma anche col cuore. Di fronte ad esperienze particolarmente significative per l’indagine di lavorazioni o mansioni si è fatto ricorso a registrazioni estese così da dare modo agli interlocutori di esprimersi oltre i limiti posti dalle domande previste.
I risultati della ricerca hanno confermato un esteso gap culturale sia dei lavoratori sia della società circa il “rischio sul lavoro”. Ma chiarissimo è risultato anche un altro fatto denunciato da tutti gli intervistati: le relazioni tra il rischio e le forme contrattuali del lavoro (appalti e sub appalti, turnover, atomizzazione delle prestazioni ecc.). E lo hanno fatto prendendo spunto dalla concreta condizione di lavoro da loro vissuta o osservata.
Non è stato un dialogo facile quello tra i ricercatori dell’università e i lavoratori. Non sono mancati casi di frizione soprattutto quando gli interlocutori venivano avvicinati in assenza di intermediari. “Perché pagano queste ricerche invece di spendere meglio i soldi per la sicurezza stessa?”; “Tanto non frega niente a nessuno di quello che pensano i lavoratori..”. Un atteggiamento che spesso ha lasciato il posto alla collaborazione e ad un interessamento per i risultati della ricerca.
Quasi tutti i lavoratori contattati hanno detto che negli ultimi anni nessuno si era interessato alla loro esperienza di lavoro, che di queste cose si parla poco o non si parla affatto e che oggi l’interesse per il mondo del lavoro e della produzione, soprattutto manuale è pressoché nullo, “salvo quando ci lasci la pelle”. La morte d’un lavoratore è la breccia con cui il lavoro appare finalmente agli occhi della società ma è anche frustrante: bisogna lasciarci la pelle per far sapere le reali condizioni in cui si svolge il lavoro?
(Manlio Calegari)