Infortuni – Speriamo che serva e non solo per me

M. è arrivato in Italia che aveva dodici anni, per raggiungere una madre lontana da tempo, emigrata per lasciarsi alle spalle un matrimonio combinato quando lei di anni ne aveva quindici. Arrivando M. non ritrova solo la madre, ma anche un patrigno ed una sorellina. Licenza media, un diploma professionale, qualche primo lavoro precario e un monte di difficoltà di rapporto col patrigno che rende la sua adolescenza particolarmente difficile. Poi arriva la possibilità di un imbarco, un lavoro infinitamente desiderato perché la nave l’avrebbe allontanato da una situazione familiare densa di conflitti. Ma pochi giorni dopo l’assunzione arriva il fulmine della scoperta di una grave patologia. Perdita del lavoro, cure, e in eredità una invalidità del 50 %.


Il ragazzo si rimette in pista: frequenta un corso di formazione professionale indirizzato agli invalidi del collocamento obbligatorio, e al termine viene assunto come apprendista. Ma al termine del quarto anno l’azienda lo lascia a casa: un nuovo apprendista costa meno di un operaio. Il nostro si rimette in gioco, e va prendersi un nuovo diploma, questa volta di saldatore: su quindici allievi, mi dice, gli italiani sono solo tre o quattro. A diploma acquisito, il canale del collocamento obbligatorio lo porta a un nuovo lavoro, più professionale. Il suo inserimento viene accompagnato da chiare prescrizioni che specificano quel che può e quel che non può fare, date le caratteristiche della sua invalidità, ma la natura del contratto è sempre precaria.
Gli inizi sono promettenti: racconti di chi scopre il valore del lavoro operaio, della professionalità, dell’incontro con operai anziani che insegnano il mestiere. Dice che, finalmente, nella nuova azienda si bada alla sicurezza: tutti gli stanno attenti. Gli uffici della Provincia per qualche tempo fanno ispezioni a sorpresa e trovano tutto a posto. Poi le cose cambiano. Le ispezioni cessano, e lui vede che le condizioni di lavoro peggiorano sempre più: lavoro notturno, lavori in quota, pericolosi vista la sua invalidità. Inutili i tentativi di convincerlo a rifiutare queste condizioni, a rivolgersi al sindacato o nuovamente alla Provincia: per lui il lavoro non è solo questione di soldi, ma di identità. La sua vicenda gli ha fatto mettere nel lavoro tutte le sue possibilità di riscatto. Aspetta che il contratto da precario diventi stabile per sentirsi nella condizione di rivendicare dei diritti. Dirgli che se perde la vita perde tutto non serve a nulla: per lui la perdita d el lavoro è già la perdita di tutto.
Poi ecco l’infortunio, l’infortunio grave; se la cava per un pelo. Ingresso in ospedale col codice rosso, panico e agitazione dei datori di lavoro, dei colleghi. Due mesi di prognosi, ma nulla di irreparabile. Per telefono dice: “E’ andata bene, è quello che ci voleva: io me la sono scampata, e loro si sono presi paura. Speriamo che serva. Non solo per me, ma per tutti”.
(Paola Pierantoni)