Infortuni nel tempo – E’ stato il lavoratore che si è fatto investire

Tutti condannati gli imputati (il Direttore di I° tronco di Autostrade per l’Italia SpA; il Coordinatore dei lavori di SPEA SpA; il Direttore dei lavori di T.I.S. SpA) al processo per l’infortunio avvenuto il 9 marzo 2004 su un viadotto della A10 (OLI 188). Concesse solo le attenuanti generiche che hanno ridotto la pena dai tre mesi richiesti dal P.M. a un mese e mezzo.
La difesa aveva messo in campo avvocati agguerriti: il giudizio sulle condizioni di sicurezza di quel cantiere, sulle responsabilità di quell’incidente, potrebbe infatti influire sul modo di lavorare in molti dei cantieri delle nostre autostrade.


La linea seguita è stata quella di scaricare tutta la responsabilità sullo stesso lavoratore infortunato che, in questo caso, si prestava particolarmente bene alla bisogna visto che era anche il “preposto”, colui che avrebbe dovuto essere “Il garante della sicurezza in loco”, mentre ha avuto un comportamento “incredibile e inopinato”.
Ricordiamo che il lavoratore, procedendo di notte a ritroso per sistemare le luci del cantiere, si era spostato inavvertitamente al di fuori della corsia delimitata dai soli coni segnaletici e un camion l’aveva investito. Data la ristrettezza delle corsie (3,28 metri), e il lavoro notturno, il Piano di Sicurezza e di Coordinamento aveva imposto la deviazione di carreggiata, ma durante la fase di allestimento del cantiere l’azienda aveva adottato come misura di sicurezza la sola restrizione di carreggiata.
Ad un certo punto l’avvocato rincara la dose e afferma testualmente: “Non è stato il veicolo ad avere investito il lavoratore. E’ stato il lavoratore che si è fatto investire”. Praticamente un (tentato) suicidio.
Ormai questa deve essere diventata la strada maestra: su Repubblica del 30 giugno in prima pagina il titolo “Morirono bruciati in fabbrica – chiesti i danni ai familiari” segnala il caso della Umbria Olii, dove si è varcato il confine dello scandalo: 35 milioni di euro di risarcimento chiesti ai familiari dei quattro operai che persero la vita nell’incidente di due anni fa.
Tornando alla T.I.S, attorno al caposaldo della colpa dell’infortunato, l’ultimo intervento della difesa percorre tutte le possibili strade, usa tutte le possibili argomentazioni: l’allestimento del cantiere non è assimilabile alla attività lavorativa vera e propria; l’esigenza della sicurezza va “contemperata” con quella di erogare un pubblico servizio: non possiamo chiudere le autostrade ogni volta che c’è un cantiere; oltre ai sistemi di protezione sono almeno altrettanto rilevanti i comportamenti dei lavoratori, e il preposto aveva il compito di vigilare su questi, a partire da se stesso; l’orientamento della giurisprudenza secondo cui i lavoratori vanno protetti anche da loro stessi è diseducativo: ci manca che venga esteso anche ai preposti…
Il giudice, però, deve aver trovato più convincente al ricostruzione fatta dal P.M. che aveva puntato il dito sulla fittizia distinzione tra allestimento del cantiere e attività di lavoro, e che aveva ricostruito il gioco di interessi che aveva portato a modificare le misure di sicurezza inizialmente previste. Gli avvocati romani, delusi, si scambiano brevi commenti a bassa voce. Ora si attende la pubblicazione delle motivazioni.
(Paola Pierantoni)