Immigrazione – Parole, parole, parole
Nelle dichiarazioni ufficiali le parole ora compaiono educatamente abbigliate. Dicono: “Il governo ripetutamente ha già condannato in modo esplicito ogni forma di violenza” (Roberto Maroni), oppure: “Verona non fa politiche discriminatorie” (Flavio Tosi); o ancora: “L’Italia si allineerà alle norme europee, ciò che significa rigore verso l’illegalità, e integrazione e umanità per gli immigrati che rispettano la legge” (Franco Frattini).
Nella propaganda le parole cambiano abito, come nel volantino della Lega Nord per la raccolta di firme “contro la legge regionale che concede agli stranieri tutti i privilegi, a danno dei nostri cittadini”
Prendiamole queste parole, quelle nel salotto, e quelle di piazza: “extracomunitario”; “straniero”; “violenza”; “integrazione”; “discriminazione”; “umanità”; “diritti”; “privilegi”; “danno”; “cittadino”; “nostro”… Di che si sta parlando? Quanti diversi significati assumono questi sostantivi e questi aggettivi a seconda di chi li pronuncia e di chi li ascolta?
Sarebbe importante ricominciare ad intendersi sul significato delle parole, come base minimale per sperare di condividere con i nostri co-specifici almeno qualche aspetto della realtà.
Le parole, invece, sembrano essere sempre più oggetti indipendenti, il loro legame con ciò che starebbero ad indicare è diventato incerto, variabile, senza fondamento condiviso. Si sta squagliando, sotto i nostri piedi, la base culturale comune che permette di nominare una cosa o un concetto con la tranquillità che l’altro capisca di che stiamo parlando. Poi potremo litigare o abbracciarci, ma sapendo almeno a proposito di che lo facciamo.
Può darsi che a volte si tratti di timidezza, o di quieto vivere, ma il ritegno che provo ad interloquire con qualche passeggero di autobus che ad alta voce dice cose come “agli immigrati danno la casa gratis” il più delle volte mi deriva da un fondo di disperazione: non spero, in nessun modo, di poter comunicare. Sento che già a partire dalla parola “immigrati” siamo su due continenti alla deriva, separati da una faglia che si allarga sempre di più.
Alla apertura di questa faglia, al suo progressivo allargamento, stanno lavorando in molti, da molti anni. Alcuni in modo attivo, intenzionale, diretto, attraverso la televisione, la propaganda strumentale via etere e via carta. Altri in modo indiretto con la passività, la distrazione, la sottovalutazione, la banalità e l’opportunismo dei loro atti e del loro stesso linguaggio.
Come fare? Non esistono più i luoghi di formazione che hanno traghettato alla età adulta la generazione del dopoguerra. Penso, è ovvio, alle grandi fabbriche animate da una vita sindacale e politica che interagiva con la scuola, la cultura, con tutti gli aspetti della vita sociale. Un giovane amico marocchino lavora in una media azienda metalmeccanica. Lì tra italiani, cinesi, eritrei, rumeni non ci sono a volte nemmeno le parole comuni per poter lavorare insieme. Nella confusione delle lingue, tuttavia, da un gruppo di operai dell’Ansaldo in pensione che lavorano lì a contratto, sta ricevendo qualcuna delle vecchie parole. Ma con chi condividerla oggi?
(Paola Pierantoni)