Immigrazione/2 – I difficili confini della legalità
M. è una giovane straniera extracomunitaria che vive a Genova con la sua famiglia, con regolare permesso di soggiorno. Per sbarcare il lunario fa le pulizie ad ore la mattina presso varie famiglie genovesi e la babysitter per altre famiglie il pomeriggio: naturalmente in nero. Un pomeriggio M. viene investita sulle strisce, assieme al bambino che accudiva. La sua prontezza le permette di spingere a lato il ragazzino e solo lei viene centrata dall’auto. Si riprendono velocemente: arriva la polizia, arriva l’ambulanza. M., consapevole della sua situazione spiega che il giovanotto è figlio di un’amica cui ogni tanto fa un favore. Ha qualche costola spezzata, una spalla lussata e varie escoriazioni, ma il bambino ha la precedenza, quindi dovrà andare con lui al Gaslini, attendere i genitori per poi venire anche lei ricoverata. La famiglia del bambino consapevole della sua situazione la assiste al meglio: le paga un avvocato, continua a retribuirla come in precedenza nonostante sia prima in ospedale e poi a casa a letto per qualche mese. Naturalmente M. però perde gli introiti dei lavori mattutini che non può più fare, e sarà difficile dopo ricominciare. M. nonostante tutto difende le famiglie per cui lavora: non è stata colpa loro, è lei che non può più lavorare. Se le si parla di contratto, malattia e contributi continua a difendere i suoi datori di lavoro, è un lavoro casalingo, non è mica in una fabbrica, restare in nero conviene economicamente sia a lei che alle famiglie. E poi lei se la sa cavare. In pratica c’è una sostanziale alleanza della lavoratrice e del datore di lavoro all’insegna dell’illegalità, e questa giovane straniera che viene in Italia con una sincera voglia di lavorare, fa presto a capire che, se te la sai cavare e sei disponibile un posto lo trovi, ma in barba alle leggi.
(Maria Cecilia Averame)