Gravina in Puglia – Non soltanto i pedofili insidiano i bambini

I soliti (discutibili) applausi al feretro, lacrime, mazzi di fiori e tanti peluche con dediche di affetto, di tenerezza, sono gli aspetti visibili della commozione popolare che segue le più insopportabili tragedie sciorinate dalla cronaca quotidiana, ultima la fine atroce toccata ai due fratellini di Gravina in Puglia. Certo nessuno può dubitare, tanto meno sorridere, dei sentimenti espressi magari in modo ingenuo, un po’ teatrale, da tante singole persone; ma allo stesso modo non si può tacere il rischio che il coro del pianto, amplificato dai media, possa cancellare lo scenario di degrado generalizzato e le responsabilità non solo morali che un simile sciagurato episodio mette in tutta evidenza.


Prendiamo per buona l’ipotesi meno disumana e ormai probabile che il papà di Ciccio e Tore non c’entri nulla, che siano infondati i sospetti per cui lo hanno arrestato, insomma che si sia trattato di una “disgrazia”. Ma siamo proprio sicuri che, esclusa la presenza del padre snaturato o del pedofilo assassino, il “mostro” non sia una città, una comunità che non tiene in alcun conto la vita dei suoi figli? Quali e quanti trabocchetti mortali fossero predisposti nell’edificio disabitato del centro antico, usato come parco giochi dai ragazzi di Gravina, lo hanno documentato resoconti di giornali e riprese televisive: prova ne sia che a fare scoprire i cadaveri dei due fratellini nella cisterna, è stato il volo di un altro tredicenne inghiottito da una botola.
Soltanto “dopo” qualcuno ha provveduto a bloccare con catene e lucchetto l’accesso a quell’antro. E prima dov’erano i funzionari del comune addetti alla pubblica incolumità, per non parlare dei proprietari dei ruderi, mantenuti tali per decenni, magari in attesa di favorevoli sviluppi edilizi? Sapremo mai se qualcuno di loro pagherà con un giorno di galera? I riflettori sulla tragedia hanno aperto uno squarcio impietoso sul degrado civile ma anche familiare che lascia a se stessi tanti figli, veri “bambini randagi”.
Un altro deprimente capitolo riguarda la professionalità degli investigatori: sembra assurdo che nessun magistrato, poliziotto o carabiniere abbia avuto la curiosità di dare un’occhiata (con relativa torcia) nei meandri del complesso abbandonato, distante solo 50 metri dal posto dove erano stati visti per l’ultima volta i due fratelli Pappalardi. Forse a ingannare anche i cosiddetti segugi è stata proprio la familiarità, quindi automaticamente l’innocuità del luogo, eletto ormai a spazio attrezzato per i ragazzi, per i loro giochi a nascondino, con la morte dietro l’angolo.
(Camillo Arcuri)