Studi di settore – Pagare tasse senza guadagnare
In epoca di dichiarazione dei redditi assisto ai disagi fiscali, sconfinanti nel dramma, dei miei giovani amici con partita IVA. Tre architetti sui trenta anni, tutti ex compagni di corso che oggi svolgono, in diversi studi professionali, un lavoro oggettivamente dipendente per redditi netti che si aggirano sui 1200 euro al mese, ed una grafica che sbarca il lunario affiancando alla sua attività libero professionale quattordici ore settimanali di supplenza in due scuole (una pubblica e una privata), per un reddito complessivo sui 1900 euro mensili.
Una di queste sere trovo uno dei miei amici infuriato ed offeso perché lo “studio di settore” che lo riguarda prevede che lui debba guadagnare il 30% in più di quanto, realmente, guadagna. Il commercialista da parte sua gli consiglia di pagare, perché, dice, è talmente facile incorrere in errori, che la via più sicura è non opporsi. Stretto nella tenaglia fisco/commercialista l’amico mi esprime il suo sentimento di offesa per sentirsi, alla fine, catalogato come evasore, cosa che lui non è. Il discorso torna nei giorni successivi, mentre passeggiamo tutti insieme per l’Expò. Tutti si sentono sfruttati, esposti, privi di difesa. Uno chiede: ma il sindacato è davvero consapevole della nostra situazione?
La amica grafica mi telefona invece annichilita dalla notizia di dover pagare 12 mila euro di tasse: errori compiuti dal commercialista negli scorsi anni, uniti al fatto di collezionare scampoli di reddito da datori di lavoro diversi hanno prodotto il disastro. Dato che ha zero margini economici, andrà in banca per chiedere un prestito, su cui pagherà ovviamente i relativi interessi.
Il problema non sono, in sé, gli studi di settore, strumento oggettivamente necessario a circoscrivere, in base a dati statistici, l’area dell’accertamento. Il problema vero è il nostro stranissimo mercato del lavoro che costringe nella categoria degli imprenditori persone che non lo sono: in Italia la quota di lavoro autonomo sull’occupazione è più del doppio di quella registrata nel Regno Unito, in Francia e in Germania. In Italia sono considerati lavoratori autonomi quelli che in un paese normale verrebbero inquadrati come lavoratori dipendenti: difficile che uno studio di settore sia adeguato per la fascia economicamente marginale di chi in realtà opera forzatamente per un unico committente (quello che dovrebbe essere definito “datore di lavoro”), alla tariffa (si sarebbe detto: al salario) che questo stabilisce. Inoltre questi ragazzi si ritrovano senza strumenti in balia di normative fiscali complesse, senza nemmeno potersi permettere un commercialista di adeguat a professionalità. Quelli a disposizione, pare, o non si espongono e si trincerano nel “meglio pagare, non si sa mai, gli errori (di chi?) sono facili”, o gli errori li commettono davvero.
(Paola Pierantoni)