Lavoro – La sicurezza non si fa sui giornali

Ho lavorato per un po’ di anni in sicurezza, avendo seguito la Direttiva Seveso sui rischi di incidenti rilevanti, fino a vedere l’invenzione della 626/94 con la quale condivido la data di nascita (…), e tutta la normativa conseguente, sia impiantistica che organizzativa.
Volendo riassumere, l’importante oggi in Italia è che ci sia un responsabile dell’infortunio, non che il ferito venga evitato. Altrimenti non si capirebbe come mai nei cantieri si continui a lavorare col morto, come si fa a briscola chiamata.


Lo stesso vale per i giornali, che pubblicano di sicurezza solo quando succede qualcosa, tra l’altro solo se di importanza rilevante. Sarei più felice di veder censurate le notizie sui morti a fronte di un redazionale mensile sulla sicurezza, su quello che può accadere se non si lavora “bene”, insomma formazione e informazione invece che repressione. Guardatevi intorno e vedrete un operaio (nazionalità poco importa) che salda con la mascherina regolamentare, mentre il compagno lo guarda al lavoro senza nessuna protezione, passanti compresi.
Mi piacerebbe ad esempio che negli uffici di una Asl (di una Asl!) i monitor 21 pollici fossero impostati con un “refresh a 100 Hz” … non è chiaro nemmeno al giornalista che ci sta davanti tutto il giorno? Beh, non date la colpa a me. Comunque si eviterebbe quello strano e incomprensibile mal di testa la sera (http://www.hwinit.it/guide/vsync/).
Per demolire i muri del mio appartamento, scartando i piccoli artigiani edili che non davano garanzie in tal senso, mi sono affidato ad una piccola azienda che vantava di lavorare per le Coop e per il Comune, munita di assicurazioni varie. Si sono poi presentati due ragazzi sbarbatelli, uno ecuadoriano e uno algerino, con in mano un martello. Elmetto, guanti, pala, scala, occhiali, angolare munito di protezioni, e soprattutto ragionamento prima di muovere le mani sono stati forniti dal sottoscritto. Avrei potuto mandarli a casa, invece mi son reso conto che evidentemente il mercato del lavoro è questo, e che cambiare azienda non avrebbe cambiato le cose.
La convinzione che gli era stata instillata, e non erano i primi, era che se si fossero fatti del male “tanto” io non ne sarei stato responsabile. Ora, a parte che questo non è vero per la legge, comunque mi aveva lasciato esterrefatto il concetto ben radicato in loro che tanto non succede nulla, e che comunque si sa che lavorando ci si fa male. Quindi mi sono messo a rincorrerli perché questo non accadesse “almeno” in casa mia.
La soddisfazione è stata che il ragazzo ecuadoriano, dopo tre giorni di obblighi, si è deciso a chiedermi i guanti e gli occhiali prima di tagliare un tubo. Credo di avergli trasmesso, almeno per un po’ di tempo, quello che gli interventi formativi di legge non sono riusciti a fare: il rispetto di sé stesso.
A proposito: il loro datore di lavoro mi ha guardato come se fossi un imbecille. Speriamo che non debba mai rispondere di fronte ad un giudice per la morte di un simpatico ragazzo ecuadoriano.
(Stefano De Pietro)