Fuori dal coro – Quanti segni individuali nel porto degli architetti

Sopravissuto alla ressa (si è rischiato, con facile battuta, la rissa), dell’inaugurazione volutamente democratica e popolare –tutti spinti e a spingere, da Novi (Autorità Portuale) a Kolijeja (fratello del muratore, ucciso, probabilmente, dalla fretta dei committenti e dall’ingordigia di qualche imprenditore)- mi sono venute in mente alcune considerazioni che ho poi ritrovato nella cronaca dell’evento.


Il Secolo XIX, riporta, nell’articolo principale, a firma Bonometti e Plebe, una frase di una coppia di visitatori: ”Dall’esterno mi ricorda un po’ la Coop, ma i muri antichi che ci sono dentro sono meravigliosi…”. Repubbilica-Il Lavoro, intervista, come d’altra parte fa, giustamente, il Secolo, il progettista, che dice “…ho voluto dotare di un faro la vecchia darsena. Il mio sogno è che questo faro diventi un nuovo simbolo della darsena, come prima lo era l’orologio… la terrazza illuminata di notte sarà il nuovo segno di identità del Galata, un faro sulla vecchia darsena…”. Anch’io so bene, per evidente comune esperienza professionale, che può esistere l’ambizione, per un architetto, di lasciare un “segno” nel luogo dove ha avuto l’incarico di progettare un oggetto architettonico, tuttavia, mi chiedo: Era proprio necessario lasciare un altro “personale” segno proprio nel porto antico recuperato alla città? Non è che di “segni” se ne stanno accumulando un po’ troppi in quello spazio così delicato? Non m’interessa, in questa sede, parlare del Museo come spazio espositivo -aspettiamo di vederlo finito, nei prossimi mesi-, mi soffermo sugli “oggetti architettonici” che vedo, piano piano, comparire nel panorama portuale. Se Consuegra realizza un terrazzo panoramico dal porto alla città e ricopre di vetro una facciata che esisteva ancora, seppur tormentata dalle trasformazioni del porto di antico regime, Economia e Commercio, al suo fianco, è un altro segno distintivo del progettista Rizzo? E’ solo un gesto diverso, filtrato da altri saperi e culture? La trasformazione in appartamenti privati del Cembalo (che credevo spazio a destinazione pubblica!), con i balconcini “anni 60” è un altro segno, ancora? E la “sfera” di Piano, già “microonde per farfalle”, cos’è? E il Bigo con l’Acquario? E Porta Siberia, oggi negata come porta d’accesso, da e per il porto, per diventare museo ed esposizione dei nuovi santi cittadini? Poi ci sarà Ponte Parodi e, novità, i Magazzini del Design…
Ho messo tutto assieme perché, a fronte di una trasformazione del porto antico che, nel suo complesso, è straordinariamente importante, temo fortemente che la sommatoria di tanti episodi architettonici, più o meno riusciti, non basti a creare quell’effetto città che vorrei che il porto antico recuperato, conquistasse o recuperasse. Comprendo che non è un tema semplice da affrontare e che riguarda tutte le città portuali, ma, prima o poi, dopo i fasti delle celebrazioni, dalle Colombiane al 2004, bisognerà affrontarlo. Per carità, non voglio fermare nel tempo uno spazio che è sempre stato in continua trasformazione, proponendo solo restauro conservativo, mi chiedo, piuttosto, se con tutto quello che è stato detto sul rispetto della memoria storica – e delle tracce materiali stratificate nel tempo-, non fosse possibile un approccio meno individualistico, con interpretazioni del porto legate solo a visioni personali.
Il Bigo doveva essere una “giostra” e giostra è, ma, com’è noto, per vedere Genova dall’alto basta usare l’ascensore di Castelletto. Il terrazzo di Consuegra è anche affascinante, ma che debba sostituire, nella volontà del progettista, la Lanterna, mi sembra un po’ eccessivo. E del silos vicino (il cosiddetto Hennebique), con la sua torre uffici… cosa ne facciamo?
In tutte le note positive che si colgono in questa città che cambia, mi piacerebbe che gli architetti incaricati degli interventi “la prendessero più bassa”, come si dice in genovese, o che qualcuno gli facesse capire che a molti cittadini non piace o interessa vivere a Disneyland. E che a queste persone piacerebbe, invece, che la città in cui vive conservasse con maggiore cura le tracce della sua storia, compresa la facciata del Galata, con il suo orologio. Noto, malignamente, tra l’altro, che prima l’orologio era pubblico, nel senso che era visibile, oggi, per sapere l’ora, si paga il prezzo del biglietto del museo.
(Gu.R.)