Call center – Se tu dai una cosa a me, io do una cosa a te
Recentemente i giornali hanno riportato la notizia della stabilizzazione di oltre 20.000 lavoratori, effetto di una norma della finanziaria 2006 che ha destinato 600 milioni di euro per sanare parzialmente gli oneri contributivi dovuti dai datori di lavoro che utilizzavano impropriamente il lavoro “a progetto”.
Condizione per godere di questo beneficio era la stipula entro il 30 aprile 2007 di accordi col sindacato per assumere come lavoratori dipendenti con contratti non inferiori a 24 mesi i lavoratori disponibili a sottoscrivere una rinuncia ad altri diritti pregressi (ad esempio differenze retributive).
La scommessa si fondava quindi su un doppio interesse: del datore di lavoro che si preserva dal rischio di più pesanti sanzioni, e del lavoratore che consegue in tempi rapidi la sua stabilizzazione per almeno un biennio, anche se al prezzo della rinuncia di parte dei suoi pregressi diritti contributivi e retributivi, ben sapendo che il loro pieno riconoscimento per via giudiziaria è cosa lunga ed incerta: l’onere della prova sta al lavoratore, e i tempi della giustizia sono quelli che sono.
A consuntivo, questo processo di stabilizzazione ha riguardato quasi esclusivamente i lavoratori “inbound” dei call centers: effetto della attenzione che in questi ultimi due anni si è accesa su questo settore di lavoro e del cosiddetto “Avviso comune” firmato il 4 ottobre del 2006 tra Ministero del Lavoro e parti sociali. Ed è proprio a proposito di questa intesa che vale la pena di mettere in evidenza un aspetto (troppo tecnico?) che sfugge alle cronache giornalistiche, e cioè la distinzione che vi viene fatta tra attività “inbound” per la quale è d’obbligo la forma del contratto di lavoro dipendente, ed attività “outbound” dove il ricorso al lavoro a progetto “può” essere consentito. L’assunto che sta alla base di questa distinzione è che gli operatori “inbound” (quelli che ricevono le chiamate di utenti in cerca di servizi o informazioni) svolgono una attività subordinata, mentre gli “outbound” (quelli che telefonano a casa per venderti questo o quello) gestiscono au tonomamente un portafoglio clienti.
In realtà questa distinzione è capziosa e fuorviante, perché nelle grandi imprese di telemarketing l’organizzazione del lavoro è fondata su un sistema computerizzato che, sulla base di liste predisposte dalle aziende su cui gli operatori non hanno nessun controllo, spara le telefonate (e quando capita i fax, con conseguenze sensibili sull’udito) in cuffia ad operatori che le attendono passivamente, e che devono gestire una comunicazione ingabbiata entro i binari di rigidi scripts. Di più: l’assegnazione delle liste più “difficili”, costituite da persone contattate negativamente già molte altre volte, viene spesso utilizzata come un sistema di castigo, ovviamente a totale discrezione aziendale.
Umberto Costamagna, presidente di Assocontact, intervistato dal Sole 24 Ore del 9 maggio afferma enfaticamente che “ora il settore appare rivoluzionato completamente”, ma nella sua azienda, la “Call & Call”, che a Genova ha una unità produttiva di 240 addetti le cose – per ora – possono continuare senza scosse: gli operatori sono tutti outbound.
(Paola Pierantoni)