Call center/2 – Il telefonista costa meno in carcere o in Romania

Il caso dell’892-892 non è certo isolato. La H3G (che a Genova ha una unità produttiva con più di 200 dipendenti) recentemente ha chiuso a Genova la linea produttiva “consumer” (caratterizzata dal più alto livello di ritmi e di stress), decentrandola parte in Romania e parte ad una cooperativa sociale che opera nel carcere di Bollate, dove l’attività del call center è stata introdotta già da quattro anni, come a San Vittore dove opera Telecom, che ha un suo call center anche a Rebibbia.


Sul sito de “Il Due”, net magazine di San Vittore, si dà una valutazione positiva di questa iniziativa, che garantisce ai detenuti “una retribuzione media di 400-500 euro mensili” per un lavoro di “sette ore spezzate, con le pause di cinque minuti ogni ora, totale 6 ore e quaranta lavorative”.
Nonostante che il lavoro nei call centers sia pagato pochissimo, il lavoro carcerario (e, immagino, anche quello rumeno e albanese) offre l’indubbio vantaggio di una paga all’incirca dimezzata per lo stesso orario, anzi, per un orario superiore: la legge 626 (che a quanto pare si ferma sulla soglia del carcere) impone infatti pause di un quarto d’ora ogni due ore, il che equivale ad una prestazione effettiva di 6 ore e quindici minuti, e non di sei ore e quaranta minuti.
Uscire da questa tenaglia non è facile: le aziende inseguono solo la riduzione dei costi, non rispettano gli utenti, sono indifferenti alla qualità del servizio, conducono campagne commerciali invadenti e ossessive, e chi lavora per un’utenza vessata e disprezzata è a sua volta vessato e disprezzato.
Se poi cerca di difendersi le aziende passano ad altri, che difendersi non possono.
(Paola Pierantoni)