Morire sul lavoro/1 – Se la sicurezza aumentasse come i tavoli istituzionali

Presidente Tofani. Signor prefetto, intanto la ringrazio sia per l’accoglienza e la disponibilità sia per la documentazione che ci ha consegnato, la quale sarà sicuramente per noi un elemento importante di riflessione, sia soprattutto per la conferma, rispetto ai dati di cui eravamo già in possesso, del fatto che non ci troviamo di fronte a situazioni straordinarie o di emergenza.
Prefetto Romano. Assolutamente no.
Presidente. Piuttosto – mi sembra di capire – esiste una situazione abbastanza sotto controllo, anche in relazione all’entità non eccessiva degli eventi infortunistici.
Romano. Esattamente
(audizione svolta presso la prefettura di Genova, Commissione parlamentare d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro con particolare riguardo alle cosiddette “morti bianche”, 17 ottobre 2005).


Come di rituale. All’indomani di ogni tragedia si moltiplicano i tavoli istituzionali. Per lunedì 16 aprile il prefetto di Genova, Giuseppe Romano, ha presieduto un incontro con Regione, Comune, Asl, Autorità portuale “per far fronte all’emergenza sicurezza sulle banchine”. Emergenza equivale a circostanza imprevista. Ma non c’è nulla di imprevedibile in quello che è successo. Imprevedibile era dove, quando, chi. A Ponte Somalia, venerdì 12 aprile è toccato a Enrico Formenti.
Chissà perché la percezione di quanto intollerabile sia una situazione avviene sempre dopo che i fatti, largamente annunciati, si verificano. E, talvolta, nemmeno dopo.
Nel 2005 a una Commissione parlamentare d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro, il prefetto Giuseppe Romano, dopo aver informato della creazione di un ufficio sulla sicurezza negli ambienti di lavoro indirizzato soprattutto sul comparto dell’edilizia (nel novembre 2003 era morto l’operaio albanese Albert Kolgjegja nel cantiere del Museo del Mare), ha aggiunto: “Preciso che avevo pensato di allargare l’orizzonte degli interventi in altri ambiti, come quello portuale. A dire la verità, però, non ci sono stati elementi di richiamo che mi spingessero ad interessarmi anche dell’ambito portuale e della cantieristica in genere, talché il focus è rimasto l’ambiente dell’edilizia”. Ma dimenticava che l’operaio peruviano José Luis Fernandez Barbeton, proprio in porto, alcuni mesi prima (giugno 2004), era rimasto schiacciato sotto un blocco di cemento. Già allora il lavoro portuale era tra quelli con più alto rischio infortunistico.
Dopo la tragedia, anche il porto è diventato focus. Alla riunione del lunedì 16 aprile in prefettura i rappresentanti dei lavoratori hanno chiesto che le “strutture dell’autorità portuale e dell’Asl costituiscano un unico gruppo di vigilanza e interventi…, ma soprattutto la costituzione di un coordinamento di rappresentanza dei lavoratori che si occupi della sicurezza in tutto il porto e che abbia l’agibilità in ogni terminal per 24 ore al giorno” (Corriere mercantile, 17 aprile). Proposta radicale se si pensa che “la prima cosa che fanno [i terminalisti] appena ottengono una concessione dall’Autorità portuale è cintare tutto, con reti e addirittura con il filo spinato, e sembra quasi di lavorare nella striscia di Gaza” (Gianni Cirri, nel film reportage di Pietro Orsatti “De Mä, trasformazione e declino”). Per il 26 aprile è previsto in prefettura l’incontro con i terminalisti.
(Oscar Itzcovich)