Un codice disciplinare per indurre al conformismo
Da anni la magistratura associata chiede una riforma della disciplina degli illeciti disciplinari che la riguarda. Ad oggi l’Ordinamento giudiziario degli anni Quaranta prevede ancora che il magistrato possa essere sanzionato quando “manchi ai suoi doveri” o “tenga in ufficio o fuori una condotta tale, che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere” oppure quando tenga un comportamento che “comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario”. E’ evidente che si tratta di regole generalissime, che possono essere applicate pro o contro un magistrato a seconda dell’opinione che un Ministro o un Procuratore generale di Cassazione (sono loro che esercitano l’azione disciplinare) abbiano di quei concetti.
Diversamente che in tutti gli altri settori lavorativi, mancano insomma norme più specifiche, che dicano in quali comportamenti concreti queste situazioni si verifichino: quando cioè un giudice possa o meno essere perseguito. La riforma dell’Ordinamento giudiziario, voluta dal Ministro Castelli, va in questa direzione. Tutto bene allora? Magari. Purtroppo alla scelta accorta dello strumento non corrisponde un risultato adeguato.
Sia chiaro: di fronte a quanto la riforma combina per altri aspetti dell’ordinamento giudiziario (dal sistema di progressione in carriera alla scuola di formazione; dai meccanismi di accesso a quelli di selezione dei dirigenti) ci sarebbe quasi da “abbozzare”.
Ma nascondere i problemi non si può. Il fatto è che quello disciplinare è uno degli snodi cruciali nelle regole la vita di un lavoratore. Se poi di mestiere questo lavoratore fa il magistrato, chiamato ad applicare ed interpretare le leggi (magari in modo scomodo per il potente di turno), basta un niente per intimidirlo, per suggerirgli che, con una scelta più conveniente, meno coraggiosa, non correrà il rischio di vedersi sottoposto ad un procedimento disciplinare, con la carriera bloccata. Già, perché cominciamo col dire che il brillante meccanismo pensato consente di tenere il magistrato sette anni (sì, proprio sette) in attesa d’una decisione, magari per un illecito banale, ma tuttavia sospeso nella progressione in servizio, se non, addirittura, “temporaneamente” trasferito altrove, con tanti saluti ai processi che stava seguendo.
Il testo in corso di approvazione prevede poi una serie sterminata d’illeciti, dai più dettagliati ad altri invece generalissimi e generici: come “l’adozione di provvedimenti abnormi”; o come il “comportamento tale da compromettere l’indipendenza, la terzietà e l’imparzialità del magistrato, anche sotto il profilo dell’apparenza”, formula che si presta evidentemente ad applicazioni svariate e fantasiose. E che dire del divieto di “partecipazione a partiti” o di “coinvolgimento nell’attività di centri politici o affaristici”? Che significa partecipare, senza essere “iscritto” o “aderente”? Che cos’è un “centro politico”? Quando vi si è coinvolti?
Il magistrato appare sempre più, in questa riforma, come un cittadino limitato. Certo, ha fama di essere un lavativo impunito. Ma – statistiche alla mano – le sanzioni disciplinari inflitte dal CSM ai magistrati raggiungono mediamente percentuali assai superiori di quelle che usualmente colpiscono gli altri funzionari. E’ un fatto da valutare. Sempre ammesso che la punizione d’un pubblico funzionario possa essere salutata dalla società come un successo.
Marcello Basilico (magistrato)