Welby/2 – La misericordia? Ormai e’ morta

Era un chiesa fondovalle. Di quelle delle Alpi con campanili svettanti e un camposanto recintato, come in città non se ne vedevano. In alcune tombe fiorivano le stelle alpine e le croci in ferro battuto sembravano tratte da un romanzo. Le lapidi mescolavano teschi, tibie e angeli come se il senso di una vita terrena potesse sintetizzarsi in quei pochi simboli, presagio di eternità e fine.


La gita – nella mente di chi mi portava – faceva parte di un programma in cui il pic-nic andava compensato con un tantino di spiritualità campestre che nutriva se stessa dal semplice fatto che il luogo era affidato alle amorevoli cure dei paesani e del prete del villaggio. Dio era più vicino certamente, e il vento, l’erba, i boschi erano prova inconfutabile della sua esistenza. La chiesa odorava di legno grezzo e le poche immagini religiose avevano espressioni d’amore e sofferenza come se l’una cosa indissolubilmente alimentasse l’altra. L’amore era sofferenza, la sofferenza generava amore. Dopo, più in là, c’era la rinuncia, sentimento che andava compreso con il tempo, senza fretta. Ai margini, in un luogo che non apparteneva né al camposanto, né alla chiesa, c’era la tomba di un tale tutta sola. Murata nel recinto forse, comunque lontana da quella compagnia che, nell’immaginario di chi vive, i morti si fanno tutti insieme al cimitero. Una tomba fuori dai discorsi, dai s ussurri, e dalle feste. “E’ un suicida…Vedi la lapide in latino?”, chi mi accompagnava poteva tradurne il testo, “…li mettevano in campo sconsacrato…vedi la data?”, “Emme, ci, ci, ix, ix…” facevo contando nelle dita, “Devi imparare a leggere le date…Qui siamo al mille e…”. Forse millesettecento. “Comunque, adesso, non succede più, è tutto cambiato, adesso gli fanno gli funerale…”. Rassicurazione illuminata dal sole di fine giornata.
Quella tomba sconsacrata della mia infanzia, con quel tale che chissà per quale dolore poi s’era ammazzato, è apparsa sulla mia vigilia di Natale. Con Piergiorgio Welby. Entrambi indegni, a distanza di secoli, di quella misericordia, e di quell’amore che volevano insegnarmi da bambina, ai quali ho imparato a dare altri nomi, sinonimi più agili.
Sulla mia vigilia anche Francesco De Andrè che ricompone tutto: “quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte ai suicidi dirà, baciandoli alla fronte: venite in paradiso, là dove vado anch’io, perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio…”
Quando uno dice la provvidenza.
(Giulia Parodi)